Dalle piazze ai palazzi

Come vi siete accorti anche voi (lo si capisce dagli articoli più letti in questi giorni) non solo le decisioni, ma anche le discussioni politiche hanno preso altre strade: sicuramente quelle dei social, ma, più spesso nessuna.

Il guaio è che, con le discussioni, si è spostato anche il lavoro per quel fenomeno che gli economisti hanno prontamente definito (e, a volte, anche auspicato) “Globalizzazione”.

La globalizzazione (che non è un incidente di natura, ma il frutto di accordi internazionali sottoscritti dai governi, a partire dai Trattati UE e dal CETA) ci ha consegnato la desertificazione industriale del Paese e la terziarizzazione del lavoro. In sostanza, al posto di ingegneri, tecnici, ricercatori, operai specializzati, chimici, abbiamo tutto puntato su magazzinieri, camerieri, operatori di call center. Lavori che non richiedono particolari competenze e, dunque, rendono i lavoratori facilmente sostituibili, con altri lavoratori più “moderati” o, addirittura, robot. La sinistra – con un tradimento ideologico e culturale che la sta facendo sparire da tutta Europa – ha dimenticato i lavoratori, sostituendolo con i “consumatori”. I consumatori sono tanto più soddisfatti quanto meno pagano beni e servizi. Il problema è che questo risultato si ottiene solo abbassando più che proporzionalmente i salari, e ciascun consumatore è anche e anzi prima un lavoratore. (1)

Per questo siamo stati chiamati a votare per un referendum che cambiasse la costituzione  e per questo veniamo oggi chiamati a votare.

Teniamolo presente e consideriamola un’occasione per parlare con i candidati che, in questo mese, si presentano nelle piazze.


  1. https://terzapaginainfo.wordpress.com/2018/01/31/vocabolario-della-neolingua-g-come-globalizzazione/#comment-2180

Elogio dei dazi

Presumibilmente ce n’era uno anche a Bondeno, visto che il nome è rimasto a un quartiere, io ricordo l’ufficio in viale Repubblica negli anni ’50 (uno degli impiegati era il padre di Romano Gallerani); chiedo soccorso a Edmo Mori e/o Marco Dondi per altre notizie.

Riporto qui invece un lungo estratto di un ex-addetto ai lavori che ne parla in modo positivo:

Ci sono tracce dell’importanza della dogana pubblica e della riscossione di tasse sin da 2.500 anni fa, allorché le merci in entrata nel porto greco del Pireo erano sottoposte a una gabella del 2 per cento sul valore: i primi dazi all’importazione, chiamati pentekostès. Fu Roma a inventare la parola datium, ciò che è dato, per definire l’imposta di transito su merci e persone. Lo stesso termine dogana ha una storia antichissima. Proviene dal turco diwan, che designava sia il luogo del Bosforo ove venivano riscosse le tasse sulle merci in transito, sia il mobile (divano) su cui sedeva il dignitario incaricato. La prima tariffa doganale organica italiana, un elenco di prodotti provvisti di una denominazione e descrizione a fini fiscali è del XVIII secolo, per il settore tessile, protagonista della prima rivoluzione industriale in Inghilterra, seguita alle invenzioni di macchinari come il filatoio (1770) e il telaio meccanico (1786).

Oggi è adottata a livello mondiale una tariffa doganale di migliaia di pagine, organizzata in capitoli e “voci doganali”, che individua ogni manufatto o prodotto della natura. La tariffa dell’Unione Europea con l’indicazione del trattamento tributario all’importazione e all’esportazione di ciascuna tipologia merceologica è unica per i 28 Stati, area di libero scambio non gravata da dazi interni titolare di una politica doganale comune verso i Paesi terzi.

I dazi, insomma, sono una cosa molto seria, tant’è che la reazione isterica a Trump del partito di Davos, il circolo esclusivo e dittatoriale dei globalisti interessati al mercato libero planetario, è stata davvero forte. Si sono ascoltate piccate lezioni di libero scambio da un gigante, la Cina, formalmente comunista che non incoraggia certo libere importazioni nel suo immenso mercato interno. Non è mancata l’intemerata di Angela Merkel, uno strappo rabbioso dopo tre quarti di secolo di sudditanza dei vinti. Il fatto è che la Germania, in tandem con la Cina, è la nazione esportatrice per eccellenza, e vanta un avanzo commerciale annuo di ben 287 miliardi di euro, il che, tra l’altro, è in contrasto con le regole europee. Chi comanda, si sa, fa quello che gli conviene. Altrettanto seccate le reazioni di parte francese ed italiana. I conversi sono i più accaniti: gli ex comunisti riciclati in acerrimi difensori del libero mercato e dell’abolizione dei dazi farebbero tenerezza se non lavorassero contro gli interessi del loro stesso elettorato.

Cerchiamo allora di fare chiarezza, a partire dalla circostanza che, piaccia o no, la politica economica di Trump ha due obiettivi in linea con le promesse elettorali che lo hanno portato alla Casa Bianca. Il primo, da realizzare attraverso imponenti sgravi fiscali, è reindustrializzare l’America, restituendole quel ruolo di regina della manifattura che ha perduto. Non dimentichiamo che negli anni successivi alla vittoria del 1945 l’economia Usa rappresentava il 50 per cento degli scambi mondiali e tale quota si è ridotta della metà.

L’altro scopo è quello di contenere l’avanzata, sinora irresistibile, del Dragone di Pechino, detentore di una larga fetta dello sterminato debito pubblico americano. I dazi posti rappresentano una tipica misura di politica commerciale nei confronti dei competitori diretti dei comparti industriali che si sceglie di rafforzare. Le lagne dei finti o veri liberoscambisti lasciano dunque il tempo che trovano. Altra cosa è prendere atto che una nazione tanto potente, paladina del liberismo e del mercato padrone, allorché si vede minacciata negli interessi, reagisce esattamente come ogni potenza ha sempre fatto nel corso della storia, proteggendo se stessa, erigendo barriere tariffarie, difendendo il mercato interno.

Il protezionismo, in definitiva, è la condizione normale della politica commerciale di tutti gli Stati. La situazione più desiderabile è vendere più di quanto si acquista e il termine mercantilismo rappresenta da secoli tale modello, di cui fu espressione la Francia del grande ministro Colbert, per oltre vent’anni al servizio di Luigi XIV, il Re Sole. La ricetta è apparentemente semplice: poiché la ricchezza della Stato è l’accumulo monetario, è essenziale acquisire valuta attraverso l’esportazione limitando l’esborso per importazione. Non deve essere una sciocchezza, se Germania e Cina, i grandi creditori commerciali, sono tanto nervosi per i dazi americani.

Non dimentichiamo l’importanza della leva valutaria, che ha alimentato il boom italiano negli anni del dopoguerra sino alla gabbia dell’euro. La svalutazione competitiva della lira metteva il vento in poppa alle nostre esportazioni, insieme con la geniale capacità di lavoro e di problem solving (ah, la neo lingua dei sapienti anglofoni!), alimentando una delle stagioni migliori della nostra storia. Oggi tocca agli Usa, accusati non senza fondamento di manipolare al ribasso il valore del dollaro e alla Cina, che mantiene artificiosamente ai minimi lo yuan. Con la moneta unica europea, al contrario, la Germania ha realizzato con altri mezzi la svalutazione del vecchio, fortissimo marco e si sta mangiando le economie di chi non ha capito il gioco, in primis l’Italia.

Del resto, la politica tariffaria nostra si è lungamente basata sulla utilizzazione selettiva della leva daziaria. Da noi, i paesi del mondo erano divisi in tre zone, A, B, C. A quest’ultima apparteneva il solo Giappone, che per decenni fu nostro concorrente diretto, nei confronti del quale erano posti dazi elevatissimi e divieti di importazione, il più severo dei quali ha tenuto la Fiat al riparo della concorrenza nipponica nel settore automobilistico. Adesso Marchionne ha voltato le spalle all’Italia e si giova dei vantaggi della politica fiscale e commerciale degli Usa con la Fca a Detroit. La zona B comprendeva gli Stati del blocco comunista, nei confronti dei quali vigeva una politica di chiusura con eccezioni, rappresentata dal regime delle autorizzazioni ministeriali e degli interessi della grande industria. La Fiat costruì un grande stabilimento in Unione Sovietica, con la fondazione della città chiamata Togliattigrad in onore del leader comunista italiano.

La zona A era a sua volta divisa in tre gruppi. Il primo comprendeva il Mercato Comune Europeo dell’epoca, il secondo il resto d’Europa e i paesi più ricchi come gli Usa, mentre il terzo riuniva Africa e Sudamerica nel gruppone dei PVS, Paesi in Via di Sviluppo, con trattamento doganale unilaterale di favore, sul modello della clausola di nazione più favorita ben noto al diritto internazionale. I livelli dei dazi erano modulati per sostenere il nostro ruolo di economia di trasformazione, evitando dazi sulle materie prime, difendendo nel contempo con imposte elevate in entrata quei settori industriali che sarebbero stati danneggiati da massicce importazioni.

Contemporaneamente, veniva sostenuta l’esportazione, abolendo divieti e dazi in uscita, nonché fiscalizzando il cosiddetto drawback, ovvero la restituzione alle imprese esportatrici dei dazi sopportati all’importazione di prodotti e materiali riesportati o lavorati. Venne trattata come un’opportunità anche la cronica lentezza dei rimborsi IVA attraverso il meccanismo del plafond, che permetteva agli esportatori l’acquisto di beni di estera provenienza senza imposta a sconto dei versamenti IVA.

I residui divieti all’esportazione vennero – e restano- mantenuti per motivi politici. Non si vendono armi, sistemi informatici o prodotti chimici a Stati con cui siamo in cattivi rapporti; in più c’è il sistema dell’embargo e delle autorizzazioni ministeriali. Oggi assistiamo a gravi perdite per le imprese italiane che lavorano sul mercato russo ed è più costoso l’approvvigionamento energetico, il che dimostra quanto sia importante la sovranità nazionale. Ben difficilmente un’Italia indipendente avrebbe elevato sanzioni nei confronti della Russia, da cui non ci dividono né controversie territoriali, né contese economiche o insanabili contrasti politici, fornitrice di energia a buon prezzo, acquirente di prodotti di punta della nostra economia. Sappiamo chi ringraziare.

I dazi assomigliano alle chiuse di un fiume. A seconda delle necessità, le paratie possono funzionare a regimi diversi: passa più o meno acqua in base alle scelte delle autorità o alla disponibilità della risorsa idrica. Ciò che non si può fare è chiudere completamente il flusso; in tutti i tempi e sotto ogni cielo, l’uomo ha commerciato con i vicini e anche con i lontani. La dogana, sempre, si è identificata con un confine, una linea di divisione, un luogo di decisione, dentro o fuori. Oggi è di moda, in ossequio al liberismo economico unito al suo doppio, l’universalismo culturale, la stucchevole espressione “costruire ponti, abbattere muri “. Noi affermiamo che si tratta di una sciocchezza travestita da virtuoso senso comune. Gli uomini hanno sempre gettato ponti, ma nel momento stesso in cui univano due rive, ne riconoscevano l’esistenza distinta, prendevano atto delle distanze e delle convergenze di chi viveva ai lati.

Una frontiera riconosciuta e rispettata, dalla quale sorgono doveri di identificazione e limitazioni commerciali di cui i dazi sono il simbolo, è un luogo di conoscenza, cinghia di trasmissione, presa d’atto di differenze che vengono insieme riconosciute e neutralizzate dalla presenza di una sbarra mobile, che si apre, ma che può anche chiudersi, la linea doganale, il confine. La filologia mente di rado: confine deriva da cum –finis, avere in comune un limite. E’ ovvio che ogni confine debba aprirsi, ma a determinate condizioni, osservati criteri stabiliti. L’economia, il commercio sono parte della vita degli uomini, i quali talvolta alzano muri o barriere per proteggere se stessi. Aprire indiscriminatamente, abolire il limes, il limite, la barriera, espone a rischi incalcolabili. Non a caso esistono opere dell’ingegneria come la Grande Muraglia cinese e il Vallo di Adriano.

La moneta euro, al riguardo, presenta una simbologia che non lascia dubbi: nessuna immagine di grandi uomini, re o regine, nessuna iconografia legata a opere d’arte riconoscibili del genio europeo, solo stilizzazioni di ponti e finestre. Nessun limes, nessuna linea di confine, basta dogane. Tutto e tutti possono entrare e uscire senza controllo e in assenza di giudizio politico, anzi il pre-giudizio è che non debbano esistere limiti. Follia culturale che diventa impotenza pratica e libero dispiegarsi delle forze distruttrici. John Keynes li chiamò spiriti animali del capitalismo e Joseph Schumpeter, più immaginifico, distruzione creatrice.

Roberto Pecchioli

in https://www.maurizioblondet.it/elogio-dei-dazi/

Centralità del popolo

Deve iniziare un nuovo approccio basato sull’idea che la responsabilità fondamentale di un governo è quella di massimizzare il benessere dei propri cittadini, non quella di perseguire una qualche idea astratta del bene globale. Le persone vogliono sentire che hanno la possibilità di stabilire il tipo di società in cui vivono. Può essere inevitabile che le forze impersonali della tecnologia o le mutate circostanze economiche globali abbiano un effetto profondo, ma quando i governi stringono degli accordi che cedono il controllo ai tribunali internazionali, non fanno altro che aggiungere al danno la beffa. Questo è specialmente vero quando, per questioni legali o per circostanze contingenti, le multinazionali si trovano ad avere un’influenza spropositata nel determinare gli accordi globali.

Se il sistema bancario italiano è gravemente sottocapitalizzato e il governo democraticamente eletto dal paese vuole utilizzare il denaro pubblico per ricapitalizzarlo, perché mai degli accordi internazionali dovrebbero intervenire a impedirlo? Perché mai dei paesi che ritengono che i prodotti geneticamente modificati siano dannosi per la salute non dovrebbero mettere, di conseguenza, al riparo i propri cittadini? Perché mai la comunità internazionale dovrebbe cercare di impedire a dei paesi di porre un limite all’afflusso di capitali esteri, se questi lo vogliono? In tutti questi casi il punto fondamentale non è nel merito, ma nel principio. Il principio è che le intrusioni nella sovranità dei popoli hanno un costo elevato.

Ciò di cui c’è bisogno è un nazionalismo responsabile — un approccio secondo il quale il primo obiettivo di un paese è quello di perseguire il benessere economico dei propri cittadini, fermo restando che venga circoscritta e limitata la sua possibilità di danneggiare gli interessi dei cittadini di altri paesi. Gli accordi internazionali non devono essere valutati in base a quante barriere abbattono, ma a quanto potere danno ai cittadini.

Questo non deve significare la riduzione della cooperazione internazionale. Può anzi significare maggiore cooperazione. Per esempio, l’attuale peso della tassazione sui lavoratori di tutto il mondo è di migliaia di miliardi di dollari maggiore che se si introducesse un opportuno sistema internazionale di coordinazione, in cui vengano identificati i redditi da capitale e si impedisca una corsa al ribasso sulla tassazione di questi ultimi. Ma la tassazione è solo l’esempio più ovvio di un ambito nel quale la corsa al ribasso interferisce con il raggiungimento di obiettivi nazionali. Altri ambiti potrebbero riguardare la regolamentazione del lavoro o della finanza e gli standard ambientali.

estratto da http://vocidallestero.it/2016/07/11/summers-sul-financial-times-gli-elettori-meritano-un-responsabile-nazionalismo-non-un-globalismo-di-riflesso/