Per un nuovo comunitarismo

Fonte: Mario Bozzi Sentieri

Siamo nel “secolo della solitudine”? L’immagine indubbiamente suggestiva  è di Noreena Hertz, economista e saggista inglese, autrice del libro The lonely Century: How Isolation Imperils Our Future, appena uscito in lingua inglese. Come anticipato da “la Repubblica”, in un’intervista alla Hertz , la denuncia verso “le perversioni del capitalismo e dell’individualismo” e la perdita del senso di comunità e di aggregazione, come i partiti, i  sindacati ed i quartieri (oggi in preda al multiculturismo d’importazione) favoriscono il legame tra solitudine, populismi ed estrema destra, facendo loro guadagnare consensi. Secondo la  Hertz il consenso a Jean-Marie Le Pen sarebbe molto alto tra le persone solitarie o abbandonate. Stesso discorso per i sostenitori del Pvv olandese, Donald Trump, Matteo Salvini. 

“Buttarla in politica” rischia però di ingenerare qualche confusione. Così come confondere aspetti patologici, cause reali e possibili palliativi. La questione è evidentemente più complessa, con risvolti a dir poco inquietanti e non solo per  la sanità americana e per quella britannica, dove le conseguenze fisiche e mentali della solitudine gravano sui rispettivi bilanci con importi miliardari.

A New York  molti professionisti stanno dilapidando  i loro  patrimoni per affittare “amici a pagamento” (tariffa oraria quaranta dollari) in grado di alleviare lo stress da solitudine. Gli psicofarmaci vanno per la maggiore.  In gran Bretagna il sessanta per cento degli impiegati non si rivolge la parola e tre quarti dei cittadini non conoscono il nome del proprio vicino. L’ex premier Theresa May, nel 2018, aveva creato perfino un sottosegretariato alla solitudine. Ma senza risultati.

Come ha notato Noreena Hertz, in un incontro presso la stampa estera di Londra  “Non basta una nuova istituzione per sconfiggere il problema. La solitudine fa parte di un ecosistema e deriva da cause strutturali. E’ inutile creare una posizione ad hoc se allo stesso tempo il governo decide di chiudere le biblioteche comunali e tagliare i centri ricreativi che forniscono un sostegno a molte persone”. 

I numeri – del resto – delineano un fenomeno diffuso, che dai Paesi nordici ha invaso anche l’Italia. Nel Regno Unito oltre 1,2 milioni di persone soffre di solitudine cronica. Ma  secondo le rilevazioni Eurostat, il 13 per cento degli  italiani non ha nessuno a cui rivolgersi in un momento di difficoltà e il 12%  non sa con chi confidarsi. Sono numeri che l’emergenza Covid ha reso ancora più rilevanti.

La solitudine non è però solo figlia di questo nostro tempo, fatto di virus, di lockdown, di smart working.  Essa appartiene piuttosto all’ideologia individualista che ha informato l’ultimo ventennio del Novecento, proiettando le sue ombre sul Terzo Millennio. E’ molto più di un sistema economico. E’ una mentalità che ha permeato i popoli, destrutturando le società ed uccidendo la politica. I “palliativi” – come visto – servono a poco, laddove la questione ha i tratti di una crisi che richiede risposte complesse, in grado di articolare adeguate contromisure. 

Non a caso Zygmunt Bauman, il teorico della modernità liquida, segnata dall’incertezza, dalla precarietà, dall’isolamento, ha evidenziato il riemergere della voglia di “communitas”, costruita sui rapporti interpersonali e sul contatto diretto tra le persone  (così come teorizzato, alla fine del XIX secolo, da Ferdinand Tönnies) seppure declinata con la “societas”, strutturata sui rapporti a distanza. 

In questo contesto – sottolineiamo noi –  il “nemico principale” sono soprattutto  i processi di disintermediazione attraverso i quali si è realizzato il depotenziamento dei corpi intermedi. Alla base di questi processi  l’idea che  l’individuo sia  il migliore giudice di sé stesso e dunque non abbia  bisogno di “intermediari”, sia in campo politico che sociale e culturale. Il  singolo è  così decontestualizzato rispetto alle appartenenze sociali (familiari, territoriali, aziendali, di categoria), diventando il figlio di una società in cui a dettare legge sono  l’individualismo e lo sradicamento. Con il risultato di  trasformare la solitudine in un tema politico, a tal punto significativo da spingere ad intitolare questo nostro secolo alla solitudine. 

L’ augurio ovviamente è che ciò non accada. Di ben altre suggestioni abbiamo bisogno e di ben altre speranze, per uscire da questo lockdown psicologico. Soprattutto di risposte ad  una domanda di appartenenza  che va ricostruita in ragione di rinnovati valori fondanti, incardinati storicamente intorno all’idea di famiglia, di Patria, di solidarietà sociale. Più che di palliativi c’è insomma bisogno di esempi e di una nuova consapevolezza collettiva, intorno a cui “ritrovarsi”. E quindi, ben al di là della politica, di una nuova metapolitica, in grado di promuovere e rendere concreta  una visione della vita e del mondo alternativa a quella corrente.

La società non esiste

Un importante saggio sui temi della crisi delle classi subalterne e del ceto medio, nonché sul vuoto di rappresentanza politica, è uscito in Italia con scarsa attenzione mediatica, nonostante l’editore sia l’università Luiss, tutt’altro che rivoluzionaria. Si tratta di La società non esiste, del sociologo e geografo francese Christophe Guilluy, studioso delle aree periferiche degli Stati europei, il cui significativo sottotitolo è La fine della classe media occidentale. E’ per essa che suona oggi la campana della riproletarizzazione: il cielo di carta si è strappato anche per la classe media. Guilluy, riprende nel titolo la tragica affermazione individualista di Margaret Thatcher degli anni Ottanta, there is no society, non esiste la società.

La liquefazione dei legami sociali ha raggiunto l’acme con il dominio della cultura libertaria e narcisista che divide il mondo tra se stessa, cool, alla moda, cosmopolita, senza legami, colta, nemica dell’identità e gli altri, arretrati, incatenati a vecchie idee, ignoranti. Questa sinistra snob, metropolitana, piena di sé, disprezza profondamente chi non fa parte del suo mondo, non pratica il poliamore, non discute di postfordismo, non commenta l’ultima serie di Netflix, chi, orrore massimo, è fedele alla famiglia naturale, alla terra natia, addirittura si permettere di credere in Dio e esprimersi non nel disgustoso inglese globish da aeroporto e listini di borsa, ma nell’idioma natio.

Il fenomeno interessa tutte le nazioni. In Spagna, il sociologo Daniel Bernabè, nel saggio La trappola della diversità, ricalca le tesi di Guilluy, accusando la sinistra di essere caduta in una autoreferenzialità prossima al solipsismo, in cui passa il tempo a spiegare agli altri in che cosa sbagliano.   Incapaci non solo di accogliere, ma neppure di concepire concetti come il patriottismo, l’identità, la famiglia, le lotte sul posto di lavoro, la difesa dell’ambiente rurale, avvolti nei propri stracci disprezzano quanto ignorano. Scrive Bernabè che sono giunte a noi le guerre culturali, i conflitti intorno ai diritti civili, la rappresentanza di gruppi che situano i problemi non nell’ambito economico, lavorativo e ancor meno nella struttura generale della società, ma in campi meramente simbolici. Il matrimonio omosessuale, il linguaggio di “genere” o l’educazione alla cittadinanza hanno occupato le prime pagine dei media, scatenando violente polemiche. Tali conflitti culturali neoborghesi, costruiti nei laboratori delle università americane, assumono un valore simbolico e diventano leggi, permettendo a governi autodefiniti di sinistra (o centrosinistra, concetto light che affievolisce il senso delle parole, esattamente come centrodestra) di svolgere politiche antipopolari nel campo economico e sociale.

In un mondo dove l’ideologia libertaria si è trasformata in alibi per affermare a livello di massa personalità isolate, sconnesse dalla comunità, la carovana progre si sforza soltanto di trovare, nella cornucopia del vocabolario politicamente corretto, le parole adeguate per riconoscere ogni diversità, creando un superstizioso alone di rispetto per qualunque minoranza mentre il sistema trascina miliardi di persone ai margini della storia. Non ricerca più una narrazione comune che unisca intorno a obiettivi e principi condivisi, ma enfatizza le specificità- alcune specificità, beninteso – per colmare l’angoscia di un presente senza identità, di comunità, di classe, di popolo. Diversità come trappola, anziché ricchezza.

Leggi tutto su https://www.maurizioblondet.it/il-cielo-di-carta-servi-e-padroni/

Società predatoria

Una società predatoria non significa solo oligarchi che truffano finanziariamente la gente. In verità, significa che le persone annuiscono, sorridono e si fanno i fatti loro mentre vicini, amici e colleghi muoiono nel fosso. I predatori nella società statunitense non sono solo i super-ricchi, ma anche una forza invisibile e insaziabile: la normalizzazione di ciò che nel resto del mondo è vista come dolorosa sconfitta morale, storica, generazionale, se non addirittura criminale, cioè diventano semplici questioni mondane per cui non è necessario piangere o preoccuparsi. Forse vi sembra gretto, no? Ora che vi ho dato alcuni esempi, e ce ne sono molti altri, delle patologie sociali del collasso, permettetemi di condividere tre punti che mi vengono presentati.
Tali patologie sociali sono uno strano e spaventoso nuovo ceppo di malattie che infettano il corpo sociale. Gli Stati Uniti sono sempre stati un pioniere; solo che oggi ospitano non solo problemi che non si vedono nelle società sane. Sono l’avanguardia di nuove patologie sociali che non sono mai state viste nel mondo moderno al di fuori degli Stati Uniti attuali. Cosa ci dice questo? Il crollo degli Stati Uniti è più grave di quanto supponiamo. Ne liquidiamo la grandezza, non sottovalutiamola. Intellettuali, media e pensiero statunitensi non pongono i propri problemi nella prospettiva globale o storica; ma se visti in questo modo, i problemi degli Stati Uniti non si rivelano come fastidi quotidiani di una nazione in declino, ma come un corpo improvvisamente attaccato da malattie inimmaginabili. Visto con precisione: il collasso statunitense è una catastrofe umana senza pari oggi. E perché il disastro che gli USA si sono inflitti, quindi, è così unico, singolare, perversamente speciale; perché anche il trattamento dovrà essere nuovo. L’esclusività di tali patologie sociali ci dice che il collasso statunitense non è il ritorno alla miseria o la caduta di un corso. È qualcosa fuori dalla norma. Qualcosa al di là di dati e statistiche. È come la meteora che spazzò via i dinosauri: un’anomalia delle anomalie, un evento estremo. Questo perché le nostre narrative, strutture e teorie non riescono a capirlo, tanto meno a spiegarlo. Abbiamo bisogno di un linguaggio completamente nuovo, e di un nuovo modo di vedere, per iniziare a darvi un senso. Ma questo è il compito degli Stati Uniti, non del mondo. Il dovere del mondo è questo: se segue il modello del capitalismo statunitense fino all’estremo, con zero investimenti pubblici, crudeltà come stile di vita, perversione delle virtù quotidiane, allora subirà tali nuove patologie. Sono nuove malattie del corpo sociale emerse con la dieta del cibo spazzatura, media spazzatura, scienza spazzatura, cultura spazzatura, sondaggi spazzatura, economia spazzatura, e di persone che si trattano reciprocamente, e la loro società, come spazzatura.

estratto da https://aurorasito.wordpress.com/2018/02/21/stati-uniti-le-patologie-del-piu-grande-stato-fallito/

traduzione di Alessandro Lattanzio

Il valore è il prezzo

Di conseguenza, la sfera pubblica – lo spazio in cui offriamo ragioni e contestiamo le ragioni degli altri – cessa di essere lo spazio della deliberazione, e diventa un mercato di click, like e retweet. Internet è la preferenza personale enfatizzata dall’algoritmo; uno spazio pseudo pubblico che riecheggia la voce dentro la nostra testa. Piuttosto che uno spazio di dibattito in cui facciamo il nostro cammino, come società, verso il consenso, ora c’è un apparato di affermazione reciproca chiamato banalmente “mercato delle idee”. Quello che appare pubblico e chiaro è solo un’estensione delle nostre preesistenti opinioni, pregiudizi e credenze, mentre l’autorità delle istituzioni e degli esperti è stata spiazzata dalla logica aggregativa dei grandi dati. Quando accediamo al mondo attraverso un motore di ricerca, i suoi risultati vengono classificati, per come la mette il fondatore di Google, “ricorrentemente” – da un’infinità di singoli utenti che funzionano come un mercato, in modo continuo e in tempo reale.

 

A parte l’utilità straordinaria della tecnologia digitale, una tradizione più antica e umanistica, che ha dominato per secoli, aveva sempre distinto fra i nostri gusti e preferenze – i desideri che trovano espressione sul mercato – e la nostra capacità di riflessione su quelle preferenze, che ci consente di stabilire ed esprimere valori.

 

Un sapore è definito come una preferenza su cui non si discute”, ha scritto una volta il filosofo ed economista Albert O Hirschman. “Un gusto che si può contestare, con se stessi o con gli altri, cessa ipso facto di essere un gusto – diventa un valore“.

http://vocidallestero.it/2017/10/19/neoliberalismo-lidea-che-ha-inghiottito-il-mondo/

Il futuro secondo Attali

Emanuel Macron, le président,  ha un progetto:  uscire –  come aveva promesso – dallo ”stato  d’emergenza”  in vigore dalla strage terroristica di Charlie Hebdo, facendolo diventare lo stato normale  e permanente della Francia. Lo ha rivelato Le Monde, a proposito di un progetto di legge  riservato in formazione: “Si tratta di far entrare nella leggo ordinaria gli strumenti dello stato l’urgenza per lottare contro il terrorismo: domicilio coatto, perquisizioni diurne e notturne, chiusura dei luoghi di culto, zone di protezione e di sicurezza, misure faro che il ministro dell’Interno e i prefetti hanno potuto usare nei 19 mesi del regime d’eccezione instaurato dopo gli attentati del 2015, diverranno misure a disposizione   delle autorità amministrative in tempi normali”.

Si tratta in  sostanza delle misure emblematiche prese durante la guerra d’Algeria del 1955, stato d’eccezione vero. Ora, diventano diritto comune e permanente. Naturalmente, “contro il terrorismo”.

Da dove ha preso l’idea, Macron? Ma da Jacques Attali, suo padrino, mentore e creatore!

Attali: “Il mercato si estenderà a settori dove  fino ad oggi non ha accesso: per esempio la sanità, l’istruzione, la polizia, la giustizia, gli affari esteri –  e contemporaneamente, nella misura in cui non ci sono regole di diritto, il mercato si estenderà a settori oggi considerati illegali, criminali:  come la prostituzione, il commercio degli organi, delle armi, il racket eccetera.  Quindi si avrà un mercato che dominerà  sempre più, determinando una concentrazione di ricchezze, una diseguaglianza crescente, una priorità data al breve termine e alla tirannia dell’istante e del denaro.  Fino, alla   fine, alla commercializzazione della cosa più importante: ossia la vita, la trasformazione dell’essere umano in una merce di scambio: lui stesso divenuto un clone e un robot di se stesso.”

 


http://www.maurizioblondet.it/lorribile-avvenire-ci-promette-attali/

Malattia come salvezza

Perciò tireremo a campare con le piccole associazioni, le confraternite, le riunioni parrocchiali, le catene solidali, il clientelismo, il familismo amorale. Perché siamo adusi a reificare il potere in dimensioni sempre più piccole: regionali, campanilistiche, familiari, personali. La nostra verve individualistica, che viene liquidata con tanta facilità come un vizio, è solo un’esclusione dello Stato dagli affari privati, e oggi che lo Stato non è più sovrano, significa escludere anche qualsiasi altra forma di intrusione da parte delle istituzioni sovranazionali. Perciò questa arretratezza medievale, questo realismo pre-ideologico e pre-moderno, è un bacillo che ci vaccina da un’altra malattia, quella europeista, esterofila, cosmopolita. Il nostro campanilismo, che è poi una sorta di pluralismo – tradito invece dalla democrazia – resiste alla reductio ad unum del vortice centripeto europeo. L’Ue si illude di poter fare finalmente gli italiani in chiave europeista, quando hanno fallito nel tentativo vent’anni di fascismo e 50 anni di inglesismi e di colonizzazione culturale americana. L’Italia sarà fatta quando gli immigrati supereranno gli autoctoni. Forse a quel punto spariranno i dialetti, qualcuno parlerà l’idioma nazionale e si avrà più senso civico. Ma fino ad allora, per fortuna, siamo malati.

Lorenzo Vitelli estratto da “L’intellettuale dissidente”

riportato in http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=50747

Come siamo messi?

Il Censis, Centro Studi Investimenti Sociali, è un istituto di ricerca socioeconomica fondato nel 1964.
Da cinquant’anni svolge attività di studio e consulenza nei settori della società italiana, ovvero nella formazione, nel lavoro, nel welfare, nell’ambiente, nell’economia e la cultura.
Quelle che seguono sono alcune considerazioni contenute nell’ultimo rapporto annuale.

Negli ultimi anni le famiglie italiane hanno attuato una ridefinizione profonda della matrice dei consumi, attaccando sprechi ed eccessi in nome di una nuova sobrietà. Il 48,6% degli italiani dichiara di avere mutato intenzionalmente le abitudini alimentari cercando di risparmiare. In sostanza: – il 63,4% sceglie gli alimenti tenendo in maggiore considerazione il prezzo più conveniente; – danno la caccia alle promozioni, con il 76% degli italiani, contro il 43% della media europea, che si dichiara interessato all’acquisto di prodotti promozionali nel punto vendita; – scelgono di più i prodotti a marca commerciale, con oltre il 62% (erano il 59% nel 2012 e il 41% nel 2011) che nell’ultimo anno ne ha aumentato gli acquisti. La scelta del luogo di acquisto è strategica, tanto che decolla il commercio ambulante, con quasi 5.000 unità in più nel periodo 2010-2012 e oltre 25 milioni di italiani (di cui il 78% donne) che vanno al mercato almeno una volta alla settimana; inoltre, il 51% degli italiani (erano il 41% nel 2012) ha aumentato gli acquisti presso gli hard discount e il 24,4% pratica lo shopping online. La necessità di selezionare sta affinando il senso critico anche grazie al web, formidabile moltiplicatore di capacità di scelta. Oltre 18 milioni di italiani sono entrati in contatto con aziende che commercializzano prodotti/servizi tramite strumenti web, dal sito aziendale alla pagina Facebook dell’azienda, ai blog e forum tematici, e altro ancora: di questi, 13,7 milioni lo hanno fatto per trovare informazioni sui prodotti/servizi, quasi 5 milioni per trovare informazioni sull’azienda e oltre 4 milioni per fare confronti con altre aziende e prodotti/servizi. Altri comportamenti razionalizzatori nei consumi sono relativi alla mobilità e al fuori casa, con oltre il 53% di italiani che in ventiquattro mesi ha ridotto gli spostamenti con auto e scooter per risparmiare benzina, con il 68% che ha ridotto le spese per cinema e svago, e con il 45% che ha ridotto o rinunciato negli ultimi dodici mesi al ristorante. Ma i continui cambiamenti (aumento dell’Iva prima sì, poi no, poi sì; Imu no, ma Tares sì; addizionali locali da determinare, ecc.) non consentono alle famiglie consumatrici di effettuare le proprie previsioni di spesa. Soprattutto la pressione fiscale e le spese non derogabili vedono ormai una parte consistente delle famiglie italiane in uno stato di tensione continua, tale da rendere molto diffusa la sensazione di non essere in grado di poter far fronte a spese eccezionali. Per ben il 72,8% delle famiglie un’improvvisa malattia grave o la necessità di significative riparazioni per la casa o per l’auto sono un serio problema. E lo stesso pagamento di tasse, tributi e bollette mette in difficoltà una quota significativa di italiani (tab. 2). La reale condizione economica familiare si trova però all’intreccio di reti in cui fluiscono aiuti materiali o informali. Si stimano in poco meno di 8 milioni le famiglie che hanno ricevuto dalle rispettive reti familiari una qualche forma di aiuto negli ultimi dodici mesi, ed è un supporto che coinvolge situazioni diverse come giovani single, famiglie con figli o anziani che vivono soli che hanno bisogno di acquistare assistenza; sempre all’interno delle reti informali, tra le famiglie che non sono riuscite a coprire le spese familiari con il proprio reddito, oltre 1,2 milioni hanno fatto ricorso a prestiti di amici e/o conoscenti.

Fonte: indagine Censis, 2013

Omologazione mediatica

Con l’articolo sotto riportato, aprivamo un blog di approfondimento a bondeno.com;  a differenza di quest’ultimo, in soli due anni, ha superato la cifra di centomila visite. (Chi ha orecchi per udire oda)

Massimo Ragnedda,  è un docente universitario, del quale abbiamo pubblicato nel 2002 un suo libro sullo stesso argomento.

http://uac.bondeno.com/afenice/vetrina/ragnedda.htm

“Ogni epoca ed ogni società, per quanto piccola, propone e fornisce ai suoi membri, attraverso le proprie istituzioni, gli strumenti interpretativi con i quali ela­borare i dati che provengono dall’esterno. Per essere ancora più precisi: ogni epoca e società fornisce i “propri” strumenti interpretativi. La particolarità della nostra epoca, caratterizzata dall’avvento dei mass media e dalla diffusione degli stessi messaggi e valori a livello globale, sta nel fornire gli stessi strumenti interpretativi e gli stessi parametri di valutazione ai cittadini. Hardt e Negri in Impero (2002: 48) parlano di un sistema che «costruisce le fabbriche sociali che svuotano o rendono inefficaci le contraddizioni; crea situazioni in cui, prima di neutralizzare le differenze con l’uso della forza, cerca di assorbirle in un insignificante gioco di equilibri che si generano e regolano da soli».
Questo non significa in nessun modo che non esistono voci discor­danti o alternative, ma più semplicemente che i messaggi che esaltano, anche in maniera trasversale e indiretta, le virtù del sistema neoliberi­sta e consumista troveranno più spazio per diffondersi e tenderanno ad influenzare, in misura maggiore rispet­to alle idee antagoniste, il nostro sistema percettivo. Dunque questi “assordanti messaggi”, solo apparentemente invisibili, ci permeano e ci influenzano nella nostra crescita offrendoci costantemente e ripetu­tamente valori e modelli di riferimento che impariamo a fare nostri sin dalla più tenera età.
Nel mondo accademico sono molti gli studi sul “consumo dei media” che hanno messo in evidenza come i bambini tendono a trarre dai media lezioni di vita che collegano e connettono alla loro esperien­za. Alcuni di questi studi hanno chiaramente messo in luce come la presentazione siste­matica e continua di alcune immagini della vita sociale tenda a pla­smare e influenzare le aspirazioni dei bambini che fanno propri i valori e modelli culturali provenienti dall’esterno. Questa influenza è molto incisiva in quanto agisce nel periodo più delicato della crescita e della formazione della personalità e dei modelli culturali di riferimen­to. Così facendo tendiamo ad interiorizzare un’unica visione del mon­do, veicolata ed amplificata dai mass media e dall’industria culturale: idea del mondo che rinforza lo status quo e la situazione di privilegio nella quale si trova l’èlite al governo. Essa, infatti, possedendo i main media, e più in generale l’industria culturale, ha tutto il vantaggio a fornirci – attraverso film, notizie, pubblicità, gossip e intrattenimento – un’unica visione della “realtà”. Il nostro mondo, quello che ha come unico parametro di giudizio la crescita infinita del PIL e del consumismo (non è un caso che tutti i governi del mondo occidentale si pongono come obiettivo primario della loro attività di governo la crescita del PIL), viene oramai accettato non solo come il migliore, ma come l’unico mondo possibile.
Il no­stro io più profondo, i nostri sentimenti e le nostre ambizioni, i nostri desideri e le nostre fobie solo in parte nascono spontaneamente in noi, e molto più spesso sono invece il frutto del processo di colonizzazione del nostro immaginario. Tale processo sarà tanto più efficace quanto maggiore sarà l’esposizione, inconsapevole e volontaria, a questi messaggi; così come sarà più forte quanto minore è la nostra capacità critica di elaborazione delle informazioni e degli input provenienti dall’esterno. Si nota una tendenza all’omogeneizzazione non tanto dei prodotti, ma della richiesta degli stessi beni. Le nostre opinio­ni, i sogni, le ambizioni e più in generale tutto quello che per noi è quanto di più intimo e personale possediamo, proviene in realtà dall’esterno ed in modo particolare dal mondo mediatico. Questo comporta, data l’u­niformità dei messaggi mediatici a livello globale, una tendenza: un’u­niformità dei desideri e delle opinioni, che inizia sin dalla più tenera età. «Nel linguaggio delle istituzio­ni – come fa notare Goodman (1995: 225) – un bambino ascolta e percepisce un’unica visione del mondo. Tutti i media non fanno che esprimere e confermare un solo, grande comune denomina­tore che investe la formazione dell’opinione e il gusto».
Resta pur vero che tale rischio è in parte mitigato dall’esistenza di altre forze e istitu­zioni che influenzano gli individui e la formazione delle loro opinioni, in primis la scuola e la famiglia, spingendole in altre direzioni che non siano solo quelle imposte dai media commerciali. Resta però il fatto che i media  svolgono una funzione primaria come agenti di socializ­zazione e di educazione valoriale poiché è anche attraverso i media che i bambini si affacciano nel e sul mondo, interiorizzando principi e valori che li accompagneranno nel processo di crescita e di passaggio all’età adulta.”


28 giugno 2011

Centenario McLuhan

Mostra fotografico-documentaria

Messaggio o Massaggio?

Giochi d’immagine in Marshall McLuhan

A cura di Paolo Granata e Elena Lamberti

20-23 aprile 2011, Bologna, Piazza del Nettuno

Nell’ambito del Future Film Festival 2011

La mostra inedita Messaggio o Massaggio? Giochi d’immagine in Marshall McLuhan, a cura di Paolo Granata e Elena Lamberti, propone un mosaico di immagini tratte dai libri meno conosciuti di Marshall McLuhan, pubblicati tra il 1967 e il 1969 quando il teorico canadese era all’apice della fama, osannato quale “alto prelato della cultura pop” e “metafisico dei media”. Sono libri costruiti sull’idea di un punto di vista mobile, proposto in un collage narrativo che giustappone, accanto a riflessioni provocatorie e paradossali su vecchi e nuovi media, icone del contemporaneo e le riconfigura in una sorta di scrittura visiva suggestiva e potente. Un punto di vista mobile sperimentato fin dal primo volume pubblicato nel 1954 da un giovane Marshall McLuhan, allora professore di letteratura inglese all’Università di Toronto: La sposa meccanica. Il folclore dell’uomo industriale «usa immagina visive tipiche del nostro ambiente e le disloca attribuendo ad esse un significato dopo averle esaminate attentamente».

Sulla scia di queste riflessioni, la mostra propone un percorso fotografico che è ad un tempo omaggio alla ricerca mcluhaniana e gioco iconografico, testimonianza di un modus operandi e sfida ludica. L’idea è quella di utilizzare i simboli visivi altrove “impiegati nel tentativo di paralizzare la mente” come mezzi per darle, invece, energia. In volumi quali Il medium è il “massaggio” (1967), War and Peace in the Global Village (1968), Counterblast (1969), così come nel gioco di carte progettato da McLuhan, il Dew-Line Deck, le immagini usate per massaggiare la mente sono dunque decontestualizzate e sovrapposte, proprio per rompere il meccanismo ipnotico, suggerendo nuovi spunti per comprendere la società. D’altronde, in una delle sue provocazioni McLuhan ci aveva avvertito: «Il futuro del libro è nella fascetta pubblicitaria!», intendendo con ciò una riflessione in aperta polemica nei confronti dei paradigmi stessi della scrittura, che suona d’altronde come un invito a cogliere le potenzialità delle forme espressive post-tipografiche.

Seguendo questa idea, la mostra propone una selezione di immagini tratte da questi volumi con l’intenzione di trasformale in sonde iconiche per esplorare ed esplorarci. Il colpo d’occhio, la visione d’insieme, così come i singoli frammenti diventano indizi di un’idea fondante del pensiero di McLuhan: applicare il metodo dell’analisi artistica alla valutazione critica della società. È la tecnica che porta ognuno di noi ad essere artista ovvero “individuo dalla consapevolezza integrale”: al centro delle immagini stanno, infatti, i fruitori, laddove l’osservazione diventa una pratica d’azione fortemente inclusiva, nella quale tutti sono coinvolti. Spetta al fruitore, dunque, giocare con le immagini, e cogliere nel massaggio (percettivo) il proprio messaggio (cognitivo).

Passioni per il dialogo. Da Gerusalemme a Città del Capo

Mercoledì 2 marzo un seminario sul conflitto isaraelo-palestinese con Vittorio Iervese


Ahlam Shibli, Trackers 54, 2005, Fondazione Cassa di Risparmio di Modena

Mercoledì 2 marzo, alle ore 21, gli spazi della mostra Breaking News. Fotografia contemporanea da Medio Oriente ed Africa all’ex Ospedale Sant’Agostino di Modena ospiteranno la conferenza di Vittorio Iervese Coloni, eredi, pionieri: la questione degli insediamenti nel conflitto israelo-palestinese. Ultimo appuntamento di Passioni per il dialogo. Da Gerusalemme a Città del Capo, l’incontro rivolge l’attenzione su quella fascia di terra contesa. In un Medio Oriente in pieno fermento, un ruolo fondamentale è infatti rappresentato dalla questione degli insediamenti (settlements), nodo cruciale per qualsiasi tentativo di dialogo tra israeliani e palestinesi. Con l’ausilio di materiali filmici inediti, il seminario proverà a raccontare le storie controverse di chi vive quotidianamente una realtà di scontri e speranze.

L’incontro, a cura degli Amici della Musica di Modena e della Facoltà di Lettere e Filosofia – Università di Modena e Reggio Emilia, è a ingresso gratuito e non richiede prenotazione (per informazioni: tel 059 372467 – segreteria@amicidellamusica.info).

La conferenza sarà preceduta, alle ore 20, da una breve visita guidata alla mostra Breaking News. Fotografia contemporanea da Medio Oriente ed Africa.

Vittorio Iervese è ricercatore in Sociologia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Si occupa di analisi e gestione dei conflitti, comunicazione interculturale e sociologia visuale. Ha recentemente svolto una ricerca nei territori occupati palestinesi sul tema: “Psycho-Social Well-being for Children in West Bank”. E’ in corso di pubblicazione per Palgrave McMillan il volume: “Children in the Occupied Palestinian Territories between protection and promotion. Analysis and possible action”.

Altri eventi collaterali

BREAKING NEWS. Visite guidate alla mostra
Sabato 12 febbraio, ore 11, ingresso gratuito

Sabato 12 marzo, ore 11, ingresso gratuito
Ex Ospedale Sant’Agostino, via Emilia Centro 228, Modena
Info e prenotazioni: tel 335 1621739, info@mostre.fondazione-crmo.it