Imparare da Roma (antica)

Osservando il fenomeno di nascita della prima Italia, risalta la presenza di un filo conduttore che ideologicamente vuole i cittadini liberi da ogni forma di servitù tramite un reddito pro capite che provenga dalla terra concessagli dallo stato. Il fenomeno è oltretutto meritocratico e spinge l’uomo allo sviluppo del concetto comunitario perché arriva alla conquista della sua “indipendenza economica” tramite la disponibilità d’impegno data alla comunità, vuoi servendo nell’esercito od in altre strutture statali. A questa linea ideologica si oppongono gruppi di latifondisti che ambiscono al controllo dello stato e delle ricchezze da esso reperibili.  Quando Roma arriva allo scontro con Taranto, nel 280a.e.v., ci si rende conto di come la Magna Grecia sia animata dalle medesime aspirazioni civili e sociali dei Romani, motivo per il quale questi ultimi elaborarono una leggenda che voleva Re Numa discepolo di Pitagora (cosa impossibile perché i due sono vissuti a circa due secoli di distanza), un motivo di propaganda che risultò credibile a causa delle medesime ideologie attive tra italioti e romani (2). La politica della libertà attraverso il possesso o reddito terriero si vide contrapposta all’ottica delle società fondate sul commercio, come quella punica, dove la ricchezza fondamentale non era la terra bensì il denaro. Gli scontri con la plutocrazia cartaginese si conclusero con la distruzione di Cartagine del 146 a.e.v.
Dopo tale evento le tensioni sociali italiche si accentuarono: i Gracchi proposero, per l’ennesima volta, la distribuzione di terre ai meno abbienti: con la crescita del dominio romano aumentavano i cittadini e le necessità ad essi connesse. I nobili intenti di questa famiglia romana trovarono la contrapposizione dei soliti “poteri forti” che, questa volta, li eliminarono spietatamente in pubblico. Dei terreni di Cartagine non si fece più nulla, ed una enorme ricchezza pubblica restava lì, bloccata ed improduttiva. Nel giro di mezzo secolo i contrasti sociali giunsero ad una terribile guerra dove le città italiane si allearono contro i poteri forti di Roma per vedersi riconosciuta la cittadinanza e poter prendere parte alle votazioni inerenti la gestione delle nuove terre: fu la guerra sociale. Silla ufficialmente vinse, ma dovette concedere la cittadinanza romana ai “socii” (alleati) italici, i quali, con ciò, furono i veri vincitori. L’identità italiana raggiunse finalmente la realizzazione del suo ideale sociale sotto Cesare: questi nel 59 a.e.v. concretizzò la riforma agraria, facendo ottenere ad ogni cittadino la quantità di terreno necessario all’indipendenza della propria famiglia.

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4 pensieri su “Imparare da Roma (antica)

  1. Cosa manca?
    Il coraggio, certo: d’altro canto, i due partiti oggi al governo non hanno lesinato strali (in campagna elettorale) nei confronti dell’Europa. Per poi rimangiarsi tutto – ma proprio tutto! – appena saliti al governo. Si può comprendere: noi non siamo la Gran Bretagna, erede di un impero che copriva il 23% delle terre emerse, e si nota in questi giorni l’estrema difficoltà di liberarsi di questo carrozzone europeo.
    Il nodo della contesa, ovviamente, non sono quei pochi decimali in più nel deficit, quando sanno benissimo che si tratterebbe di un deficit spending. Se vogliamo, una scommessa.
    E’ proprio questo che li spaventa: una scommessa contro di loro. Se mai l’Italia la vincesse (impossibile, in queste condizioni) per la loro oligarchia finanziaria camuffata da democrazia “compassionevole” sarebbe la fine.

    L’UE correrebbe il rischio oppure, le oligarchie al potere, considererebbero la posta troppo alta per giocarsela in una sola mano? Non dimentichiamo che, fra sei mesi circa, non sapremo più chi è Juncker, Moscovici…e tutto il resto: i rapporti politici interni saranno improntati all’incertezza che oggi vige in Francia e in Germania, ossia governi “pro-tempore” nell’attesa del miracolo. E, le decisioni così improvvise e belluine, potranno essere riprese in mano, riviste, edulcorate, soppresse…perché anche l’UE è giunta ad un punto di non ritorno: oramai tutti sanno che andranno a votare per un Parlamento inesistente, che non poggia su una costituzione, privato proprio dei poteri promessi nei preamboli, per affidarlo alla marea di lobbisti e di corruzione che regna a Bruxelles.
    http://carlobertani.blogspot.com/2018/11/lultima-cartuccia.html

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  2. Ma non tarda il risveglio, almeno da parte di alcuni. Friedrich Merz, l’aspirante successore della Merkel, capo della finanziaria globale BlackRock per la Germania, in una conferenza alla CDU ammette: “Se la moneta euro finisce, siamo noi quelli che ne soffriremo di più. Avremmo una rivalutazione del 25%, non deve accadere”.

    Heiner Flassbeck, un grande economista, esorta i compatrioti a piantarla con la derisione e la critica all’Italia : Se all’interno dell’Euro un paese è esposto alla speculazione esattamente come se nell’Euro non fosse mai entrato, che senso ha allora continuare a farne parte?

    http://vocidallestero.it/2018/11/30/flassbeck-il-mercato-dei-capitali-quale-giudice-e-boia/

    Il punto è che queste voci non hanno possibilità di cambiare le cose a Berlino, per un motivo: “Anche un piccolo passo indietro dalla narrativa pro-austerity che hanno venduto alla loro popolazione indebolirebbe la posizione politica delle elites tedesche.

    Infatti, “dall’inizio della crisi, la posizione della Germania è stata quella di difendere l’austerità come l’unica via d’uscita. Ciò significava “sacrifici” per tutti in Europa: non solo per le popolazioni dell’Europa meridionale, ma anche per la classe operaia tedesca, che ha visto una forte deregolamentazione del mercato del lavoro, precarizzazione, e perdita di potere d’acquisto. La narrativa ideologica venduta alla classe operaia tedesca fu che il progetto europeo sarebbe collassato se avessero salvato gli europei del sud, la cui situazione di debito se l’erano cercata da soli, spendendo al disopra dei propri mezzi e della loro scarsa produttività. Presto s’è visto che l’austerità non risolve alcun problema economico e finanziario – li approfondisce : e lo prova il fatto che il debito è cresciuto in relazione al PIL in tutti i paesi che praticato la prescritta austerità. Ma per la dirigenza tedesca, riconoscere ciò significa riconoscere che l’azione economica e politica imposta dalla Germania è fallimentare ed ha ottenuto il contrario dei risultati promessi. Peggio: sarebbe ammettere che i sacrifici imposti alla classe operaia tedesca, erano in realtà vani e non necessari”.
    https://www.maurizioblondet.it/noi-che-sappiamo-come-finira/

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  3. Quindi fu inevitabile [nei secoli successivi], che nella storia greca e romana, un numero crescente di piccoli agricoltori si indebitasse in maniera insostenibile, e perdesse la propria terra. Era perciò inevitabile che i loro creditori ammassassero enormi proprietà terriere e diventassero un’oligarchia parassitaria. Questa tendenza innata alla polarizzazione sociale – dovuta al non condonare i debiti – è la maledizione originale e incurabile della civiltà occidentale successiva all’ottavo secolo avanti Cristo, la lurida macchia che non può essere lavata via, né asportata.
    Hudson sostiene che il lungo declino e la caduta di Roma siano cominciati non, come sostiene Gibbon, con la morte di Marco Aurelio, ma quattro secoli prima, dopo che Annibale devastò la campagna italiana durante la Seconda Guerra Punica (218-201 a.C.). Dopo la guerra, i piccoli contadini dell’Italia non recuperarono mai la propria terra, che veniva sistematicamente incamerata dai grandi oligarchi terrieri, come Plinio il Vecchio ha evidenziato. [Naturalmente, oggi sono le piccole e medie imprese italiane che vengono accaparrate dalle multinazionali oligarchiche e pan-europee].
    Ma tra gli studiosi moderni, come sottolinea Hudson, “Arnold Toynbee è praticamente l’unico a dare importanza al ruolo del debito nella concentrazione della ricchezza romana e della proprietà terriera” (p. xviii) – e quindi nello spiegare il declino dell’Impero Romano…
    “Le società della Mesopotamia non erano interessate all’uguaglianza” ha dichiarato all’intervistatore, “ma erano civilizzate. E possedevano la sofisticazione finanziaria sufficiente per capire che, dal momento che gli interessi sui prestiti aumentano esponenzialmente, mentre la crescita economica nella migliore delle ipotesi segue una curva a S, è inevitabile che i debitori, se non sono protetti da un’autorità centrale, finiranno per essere eterni debitori. Pertanto i re della Mesopotamia salvavano regolarmente i debitori che stavano venendo sommersi dai debiti. Sapevano che era una misura necessaria. Più e più volte, secolo dopo secolo. Proclamavano “complete amnistie”.
    http://vocidallestero.it/2018/12/06/litalia-lunione-europea-e-la-caduta-dellimpero-romano/

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