Una conoscente, di sicura affidabilità, mi rende edotto d’un aneddoto altamente istruttivo. Circa dieci anni fa il figliuolo, allora diciottenne, e in odore di maturità classica, fu spedito in Cina con tutta la classe nell’ambito di un’operazione di “scambio culturale” (ordita non si sa da chi: sicuramente non dai nostri provveditorati o ministeri, troppo impegnati nel sorbire cappuccini; forse dai ministeri cinesi, come sospetta anche la sommenzionata conoscente).
I nostri zucconi, appena arrivati a Pechino, furono sistemati con tutte le cure presso una sorta di residence: pulito, organizzato e popolato di personale gentilissimo e in grado di affabulare, con lodevole proprietà, almeno nella rappresentanza preposta alla comunicazione, la nostra lingua materna. Gli sdraiati italici stettero un pochino sulle loro, poi cominciarono a prendere confidenza con i limoncini: sino a rivelarsi: come perfetti idioti. Erano in vacanza; di studio, certo, ma lo studio, in Italia, serve a prepararsi agli esami, non alla vita. I pecoroni, il giorno appresso, vennero portati a pascolare per la Capitale del Catai: ne ricevettero un’impressione devastante. La Cina era vicina, assai vicina: e priva di quei luoghi comuni che, chissà perché, sedimentano nell’animo dei peninsulari: il levantino con il laccio da strangolatore, il riso e il tè, la lingua indecifrabile, i salamelecchi orientali. Pechino, infatti, era una città sterminata, ampiamente infiltrata dall’Occidente e dall’inglese, moderna, insonne, paradossalmente febbrile e composta: i cinesi, poi, quegli ominicchi, secondo loro, risolvevano problemi: l’inquinamento, i cessi, il traffico … ogni aspetto metropolitano, ancor caotico, veniva sottoposto alle cure lungimiranti di un cervello da “centralismo democratico” in cui, pochi, decidevano: e gli altri, di conseguenza, obbedivano. Soffiava, insomma, una brezza travolgente e vitale dove le conquiste generavano problemi e questi ultimi, risolti, generavano progresso: e il progresso era interamente cinese, ovvero mai slegato dalla tradizione: i cinesi, almeno gli abitanti della Capitale, erano artefici del proprio destino (o del proprio disastro; un disastro, tuttavia, gestito intra moenia).
Nel pomeriggio arieti e capre, undici maschi e quattordici femmine, incontrarono i loro pari età, appena smontati dal turno di studio; vennero recati, lo appresero dopo, nella sala di musica. In tale sala, esauriti i convenevoli in cui i nostri professori rivelarono una micidiale ignoranza di qualsiasi lingua, compresa quella più ostica (l’italiano), i mufloni d’ambo i sessi assistettero a uno spettacolo sbalorditivo. Una falange di ragazzi dagli occhi a mandorla, con docilità paramilitare, si schierò in doppia fila e cominciò a intonare, solfeggiandola, un’arietta verdiana o mozartiana: con estrema sicurezza. Dopo circa un paio di minuti di tale esercizio essi si bloccarono; ne seguì un silenzio incompreso (dai nostri); il cinesame riprese da capo la solfa: trenta sessanta novanta secondi e, quindi, l’arresto; nessuno capiva. Per la terza volta i mandorlati riattaccarono, con immutato zelo e acribia solfeggiatrice: al terzo stop, brutale, gli armenti professorali, incuriositi, chiesero spiegazioni, probabilmente a gesti, del singolare comportamente (gli ovini, invece, lo presumo dal contesto, saranno rimasti ammammaloccuti): al corpo docente venne risposto, con salamelecchi mandarini, e poi in italiano, utilizzando (presumo anche questo) cortesissime circonlocuzioni, che, tutti, lì, in quella sala, una sala di musica, si aspettavano che il gregge (quello occidentale) proseguisse il bel canto proprio laddove i pechinesi l’avevano interrotto: a sancire una comunanza artistica fra i due Paesi, la Cina e, presumibilmente, l’Italia, oltre le divisioni storiche, antropologiche, et cetera et cetera.
A tutt’oggi si ignorano le risposte dei salariati statali a quella gentile richiesta; della mandria studentesca inutile ciarlare: rimase muta. Cosa avvenne, perciò? Probabilmente il professorame dovette spiegare, pietosamente, faticosamente, fantozzianamente, che, in tredici anni di scuola, lo studente italico, a onta degli euri spesi per testi e strumenticchi musicali, non impara a solfeggiare manco Tu scendi dalle stelle.
Leggi tutto: https://alcesteilblog.blogspot.com/2018/09/la-cina-e-vicina.html
L’Italiano medio, spiace dirlo, è ormai un cretino. Dal basso non nascerà un bel nulla. Occorre selezionare, rinunciare, sacrificarsi per ciò che sembra provenire dall’alto; appena si annusi l’eccellenza è doveroso prostrarvisi con deferenza: questo solo conta. Le scuole e le università italiane forgiano cretini: altra parola non viene alle labbra; arrendiamoci all’evidenza. Il declino dell’intelligenza e la parallela mancanza di un solido retroterra classico si accompagnano, sempre, a un’arroganza senza pari.
Ibidem
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Per uscire da questa linea di declino l’Italia dovrebbe fare investimenti infrastrutturali di lungo termine, cioè almeno ventennali, e idonei a far risalire la produttività: ricerca, tecnologie, ammodernamento, formazione del personale, infrastrutture, sistemazione idrogeologica. Ma per fare tali investimenti si dovrebbe vincere la resistenza e i vincoli europei, che sono stati formulati proprio per mantenere l’Italia (e gli altri paesi poco efficienti) in uno stato di crisi e involuzione controllate permanenti, onde poterne rastrellare fino al fondo le risorse finanziarie, aziendali, professionali per trasferirle in Germania e Francia (questo è il piano della c.d. integrazione europea).
http://marcodellaluna.info/sito/2018/09/30/deficit-di-bilancio-e-deficit-di-efficienza/
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E’ vero, la Costituzione, con la prolissa modifica dell’articolo 81, restringe enormemente la portata dell’azione governativa. Si omette di ricordare che non fu quella la volontà dei costituenti, ma l’imposizione delle centrali politico finanziarie europoidi. Il pareggio di bilancio è l’espressione di una precisa ideologia economica, il monetarismo, declinata come cornice inderogabile. Ordoliberismo: il liberismo iniettato negli ordinamenti. Quella è la legalità che dobbiamo rispettare, anzi condividere e amare e che Mattarella esorta a mantenere.
https://www.maurizioblondet.it/i-padroni-della-legalita/
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. In tutti i teatri italiani esistono solo tre direttori artistici competenti e colti (posso fare i nomi: Meli, Nicolosi, Vlad) ma sovente sono costretti a fungere da segretari artistici a sovrintendenti che o preferiscono farsi preparare le compagnie dalle agenzie o fanno lavorare i raccomandati di Nastasi – o, adesso, il figlio della Casellati. Anche Roberto De Simone – che è troppo grande artista per esser nominato senatore a vita – ha affermato le stesse cose in un’intervista rilasciata a un quotidiano, ma l’intervista gli è stata censurata e trasformata in una “lettera al direttore” (come se il più grande compositore vivente italiano, insieme con Morricone, si mettesse a scrivere lettere ai giornali) onde il direttore potesse rispondergli prendendosi giuoco di lui: perché il quotidiano si è sentito automaticamente connivente con il teatro della città ove ha sede.
Paghiamo i dipendenti lasciandoli a casa fino alla pensione. Si risparmierebbe su tutto il resto. I ricavati della vendita dei biglietti sono irrisori. Il Maggio Musicale Fiorentino ha ricevuto in due anni una cifra che arrossisco a citare: avrebbe dovuto fallire da anni, le decine di milioni sono servite solo perché era il teatro di Renzi e Nastasi (e del povero Nardella, il pastore della meraviglia, come si dice a Napoli), e se ora non venisse liquidato sarebbe uno scandalo senza pari. Ma chiuderli tutti, e subito. Per cinque anni. Poi, scrivere una nuova legge che li consideri musei, non circhi equestri, impedendo che diventino il ricettacolo di Nino D’Angelo, Alessandro Siani, Maradona, Bellavista…. Musei con lo scopo di far conoscere il patrimonio della cultura musicale. Una parola nuova: fin qui non è stata mai pronunciata.
http://www.paoloisotta.it
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