Editoriale

Abbiamo seguito la travagliata gestazione del nuovo governo giallo-verde (lo preferiamo a gialloblu) che avrebbe dovuto rendere chiaro ai nostri 5 lettori quali sono i nodi da sciogliere e reso evidente chi rema contro.

A questo punto, dopo 15 anni che scriviamo, ci sentiamo di condividere una valutazione espressa da un blog nostro coetaneo http://www.clarissa.it/:

L’elemento fondamentale positivo è che è tornata in questione la sovranità nazionale italiana, che dalla fine della seconda guerra mondiale è stata conculcata dalle forze traenti della storia postbellica, in quanto esse tutte sono radicatamente anti-nazionali: le forze cattoliche, quali espressioni del potere temporale della Chiesa; quelle di origine socialcomunista, a motivo dell’internazionalismo che le ha da sempre caratterizzate; quelle del liberal-capitalismo occidentale, giacché la predicazione anglo-sassone ha sempre indicato nel nazionalismo centro-europeo il nemico da abbattere. Ciò che queste classi dirigenti internazionaliste hanno prodotto è sotto gli occhi di tutti: scomparsa del senso di comunità e del superiore interesse collettivo; inaridimento dello “spirito di servizio” nei servitori dello Stato; perdita di un baricentro ideale culturale morale, dai livelli più alti a quelli più bassi della società; azzeramento di un ruolo internazionale autonomo dell’Italia, come dimostra la nostra politica estera; asservimento ai centri di potere (economici, finanziari, politici, militari) atlantici; impossibilità di una lettura oggettiva della nostra storia unitaria, e quindi di una coscienza della missione italiananel mondo contemporaneo.
Il secondo aspetto positivo è che la faticosa intesa giallo-verde ha costretto due partiti a superare contemporaneamente sia la logica partitocratica, per definire una piattaforma comune di azione; sia la logica destra-sinistra, in quanto tale piattaforma, pur con tutti i suoi evidenti limiti e contraddizioni, non risponde più alle categorie politico-ideologiche novecentesche. Non si può fare altro che dire: “Era ora!”. Ma occorre subito aggiungere che questa caratteristica, che è sicuramente ciò che, dopo decenni, fa in questo momento dell’Italia un laboratorio importantissimo per il futuro dell’Europa e del mondo, è tuttavia anche l’aspetto che deve subito essere correlato agli evidenti limiti delle forze che stanno tentando il cambiamento.
Il primo di essi è che né la Lega né il Movimento Cinque Stelle hanno formato in questi anni in modo attento e consapevole una propria classe dirigente: la Lega per la sua origine piccolo-borghese, di protesta basata su ristretti interessi economici di ceti medi tartassati dalla crisi economica e da uno Stato forte coi deboli e debole coi forti; il Movimento Cinque Stelle per l’ossessione tecnologico-telematica con cui esso si è costruito, che da sempre rende estremamente tenue e oscillante la coesione ideale del movimento: lo si è visto (ed è non solo e non tanto un segnale di opportunismo, ma di debolezza strategica), quando il Movimento ha modificato in corsa alcuni punti qualificanti della sua linea di politica estera – precisamente quelli relativi alla Nato ed alla Russia, solo per citare due esempi davvero non marginali.
Sappiamo quanto questa incapacità di formare classi dirigenti di ricambio abbia pesato sulla storia italiana: vuoi nella fase unitaria post-risorgimentale; vuoi nell’affrontare la Grande Guerra; vuoi nel periodo fascista. Fa eccezione il periodo testé conclusosi, per una ragione assai semplice: la classe dirigente post-bellica italiana è sempre stata plasmata sul calco di quelle anglo-sassoni, che da questo punto di vista hanno rappresentato e tuttora rappresentano il modello dominante: basta guardare ai dirigenti d’impresa, ai grand commis pubblici, ai quadri militari, al mondo dei mass media, agli intellettuali ed al mondo universitario.
Sappiamo anche che non potrà esservi cambiamento nella situazione italiana se il futuro governo non riuscirà a scalzare e sostituire efficacemente i quadri direttivi dello Stato: da quelli ministeriali a quelli regionali, da quelli degli organismi economici e finanziari ancora controllati o partecipati dallo Stato a quelli militari e dell’intelligence, a quelli della politica estera. Se non arriveranno qui uomini nuovi, formati ad una visione dell’Italia ispirata dal senso della comunità nazionale e della difesa dell’autonomia dai poteri internazionali condizionanti, ben poco potrà fare qualsiasi governo “populista”, poiché esso o sarà presto riallineato all’ordine costituito ovvero sarà spazzato via dalla prima crisi monetaria o economica, reale o provocata a questo scopo.
Ecco perché abbiamo sempre ritenuto prioritaria la cultura e la scuola nel processo di sviluppo del nostro paese e perché riteniamo che le larghe carenze, accumulate e incoraggiate finora, non permettano assolutamente il salto di qualità che il compito enunciato sopra richiederebbe.

4 pensieri su “Editoriale

  1. Capisco il punto, ma al momento non esiste alcuna scuola di formazione nazionale italiana. Lo stesso Paolo Savona era allievo di Franco Modigliani al MIT. Il problema è ancora più radicale: si tratta di capire e di definire che cos’è una nazione oggi, perché negli anni ’60-’70 le rivolte erano schiettamente nazionali e quindi si sono sciolte in un marasma di lotte interne. Parlare a tutt’oggi di nazione VS globalizzazione è già vecchio. Bisogna elaborare un concetto di nazione che tenga necessariamente conto di (e renda conto a) una globalizzazione dalla quale non si può tornare indietro, ma alla quale si possono chiedere ancora forti condizioni.

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