Secondo l’economia liberale, il corso dei salari deve essere agganciato alla produttività. Ma agli incrementi di produttività dovuti al progresso tecnologico, ha fatto riscontro una stagnazione ultradecennale dei salari. La competitività sfrenata ha generato concorrenza al ribasso tra i lavoratori dei diversi paesi. In realtà l’incremento della produttività non retribuita ai lavoratori è stata incorporata nei profitti sempre più elevati degli azionisti e nei compensi stratosferici del management: il neoliberismo non ha prodotto nuova ricchezza, ma ha semmai effettuato un trasferimento di ricchezza dal lavoro al capitale. Gli economisti affermano che i salari potrebbero aumentare qualora si verificasse un incremento di produttività tale da garantire immutati profitti. Innanzi tutto non si comprende a quali astronomici livelli debba aumentare la produttività. Ma soprattutto occorre rilevare che il profitto è per definizione la remunerazione spettante all’imprenditore, a fronte del rischio di impresa. Il profitto è per sua natura variabile ed incerto, perché soggetto ai rischi degli investimenti e ai mutamenti ricorrenti delle condizioni di mercato in cui opera l’impresa. Nell’era del capitalismo assoluto il profitto si è invece tramutato in una variabile indipendente dal ciclo economico, una rendita finanziaria che deve essere comunque garantita. Da tutto ciò emerge che il neoliberismo ha trasformato il profitto in rendita finanziaria, a discapito degli investimenti e della distribuzione del reddito.
La classe dominante ha inaugurato l’era del neofeudalesimo capitalista, fondata sul privilegio familiare e di classe, e sulla rendita finanziaria. L’economia del capitalismo assoluto ha stravolto i parametri dell’economia classica. Nelle fasi di crescita economica non aumentano i prezzi e l’inflazione, perché l’innovazione tecnologica e la presenza di un vasto esercito industriale di riserva costituito dai migranti, sono elementi che determinano la stagnazione, se non la compressione salariale. Nelle fasi di crisi economica i profitti hanno da sempre registrato un ribasso, mentre oggi invece si mantengono spesso inalterati. Il rischio di impresa e i costi sociali delle crisi vengono riversati sui lavoratori.
Luigi Tedeschi
https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=60490
Quindi Einaudi NON andò contro il volere popolare, NON andò contro l’interesse dell’Italia, NON andò contro, anche per le pressioni USA, ad una politica di crescita e di investimento. Semplicemente diede una mano a risolvere una impasse politica e permise la nascita di una maggioranza che, per questioni personalistiche e per dei toni aspri, non sarebbe mai nato.
Il caso attuale è diverso, soprattutto se si formerà la maggioranza politica che indicherà una serie di nomi legittimi che, essendo il Parlamento eletto in modo proporzionale, sono anche legittimi dal punto di vista democratico. In questo caso l’ingerenza del Presidente della Repubblica NON sarebbe un semplice aiuto. Perché se un presidente decide di travalicare il proprio ruolo, violare la volontà popolare espressa dal Parlamento, magari perché gli uomini scelti non sono graditi a poteri esterni, allora il problema viene ad interessare un altro articolo della Costituzione: l’Articolo 90
https://scenarieconomici.it/perche-lesempio-del-presidente-einaudi-non-e-adatto-alla-situazione-attuale-e-il-presidente-mattarella-citandolo-si-mette-in-un-angolo/
"Mi piace""Mi piace"
E se nel pensiero liberale uno dei capisaldi è stato sempre il coltivare il dubbio, di fronte a mamma UE anche il più liberale dei liberali diventa un dogmatico di matrice quasi religiosa. Così Mattarella incassa gli applausi dell’ex premier Letta e di gran parte del mondo liberale di matrice europeista, senza che nessuno dei sempre attenti feticisti della “Costituzione più bella del mondo” ponga l’accento sul rispetto dovuto da parte del presidente per le componenti politiche e i loro programmi. A fagiolo casca poi l’ennesimo grande successo delle politiche di derivazione europea: grazie infatti proprio alle clausole di salvaguardia (misure prese per garantire il rispetto dei vincoli comunitari), si avverte in queste ore l’impellente necessità per il governo che si formerà di trovare (in qualche modo) la bellezza di 12,4 miliardi. È dietro l’angolo infatti lo spauracchio di un ulteriore aumento dell’IVA al 24%, col rischio di doverla portare al 25 entro il 2020. Con tanti ringraziamenti, da parte dell’economia reale, all’intoccabile totem di Bruxelles da proteggere dal pericolo sovranista.
Fonte: Oltre La Linea
"Mi piace""Mi piace"