Tanti auguri

E’ attribuita a Winston Churchill la frase: “Gli uomini mentono in due occasioni, dopo una partita di pesca e prima delle elezioni”.

Meglio quindi metterci una toppa evitando che le menzogne siano rivelate da una stampa non compiacente; a questo scopo è già pronta una proposta di legge ( di cui trovate qui ampia disamina:

https://www.maurizioblondet.it/lalgoritmo-verita-dei-padroni-della-menzogna/)

e salatissime multe:

https://www.lagazzettadilucca.it/politica/2017/11/laura-boldrini-chiede-250-mila-euro-alla-gazzetta-di-lucca/

Agro-business

Dopo gli anni ’50, negli USA l’allevamento di maiali, vacche, bovini e pollame diventò gradualmente industrializzato. I pulcini vennero confinati in spazi così minuscoli che potevano appena stare in piedi. Per farli crescere più in fretta vennero riempiti di antibiotici e nutriti di mais e soia OGM. Secondo il Consiglio per la Difesa delle Risorse Naturali, l’80% degli antibiotici venduti negli Stati Uniti viene usato negli allevamenti animali, non dagli esseri umani. Gli antibiotici vengono somministrati agli animali mescolati al cibo o all’acqua, per accelerare la crescita. Dopotutto, il tempo è denaro. Gli agricoltori tradizionali, com’era stato mio nonno in Nord Dakota, vennero in gran parte fatti lasciare la terra dalle politiche del ministero per l’agricoltura, che hanno favorito l’industrializzazione senza curarsi della qualità del cibo risultante. I trattori diventarono macchine mastodontiche computerizzate, guidate dal GPS. Un trattore così poteva essere telecomandato e fare il lavoro di molti agricoltori. Il risultato finanziario è stato favoloso… per gli industriali come ADM, Cargill, Monsanto e per i venditori come Kraft, Kelloggs, Nestle, Unilever, Toepfer e Maggi. Il modello americano di agrobusiness Rockefeller-Harvard venne globalizzato a partire dai negoziati del GATT tenutesi in Uruguay a fine anni ’80 per la liberalizzazione del commercio, nei quali l’Unione Europea abbandonò la tradizionale protezione degli agricoltori locali per favorire il libero commercio. Mentre i negoziati del GATT stavano per dare ai giganti statunitensi dell’agrobusiness quello che volevano (ovvero la libertà di violentare l’UE e altri mercati agricoli con i loro prodotti industriali, e di distruggere milioni di agricoltori europei che avevano coltivato la terra con passione per generazioni) mi recai a Bruxelles per intervistare da giornalista un burocrate UE di alto livello, responsabile per l’agricoltura. Sembrava ben istruito, era multilingue, danese di nascita. Ebbene, questi argomentò in difesa del libero commercio, dichiarando: “Perché dovrei pagare tasse in Danimarca per permettere agli agricoltori bavaresi di restare sul mercato con i loro appezzamenti minuscoli?” La risposta, che allora tenni per me, è: semplicemente perché l’agricoltore familiare tradizionale è il solo adatto a fare da intermediario tra noi e la natura e a produrre cibo sano per gli uomini e gli animali. Nessuna macchina può sostituire la devozione e passione personale che ho visto ogni volta in tutti gli agricoltori che ho incontrato, i quali davvero si prendono cura del loro bestiame e raccolto. Ora la stessa gente molto ricca e molto arida, quelli che io chiamo gli “oligarchi americani”, sta sistematicamente facendo tutto il possibile per distruggere la qualità del cibo.

leggi tutto su https://www.controinformazione.info/perche-i-rockefeller-cercano-di-distruggere-gli-agricoltori/

*F. William Engdahl è un consulente e docente di rischi strategici; laureato in politologia alla Princeton University e autore di best-seller sul petrolio e la geopolitica. Fonte: Journal-neo Traduzione: Anacronista

Venerdì nero

Bondeno come Pescara

Passeggiando per il corso principale della mia città osservo i palazzi e i negozi che adornano il piano stradale, nell’area pedonale che oggi viene promossa a “centro commerciale naturale”, e realizzo di nuovo che in questi ultimi anni abbiamo sperimentato uno stravolgimento socioeconomico senza precedenti. Queste camminate mi offrono sempre uno spunto di riflessione sullo sviluppo dello spazio urbano, sull’evoluzione culturale ed economica della città e sulle trasformazioni che questo “progresso” realizza negli equilibri sociali.
Pescara è una città commercialmente vivace e il centro brilla di luci e colori. Mentre mi soffermo a leggere la dichiarazione di cessazione di attività di una rivendita di tessuti che sta praticando sconti da liquidazione, rifletto sul fatto che abbiamo visto sparire attività storiche, che avevano messo le radici a Castellammare e a Portanuova prima ancora che nascesse l’attuale Pescara, sostituite sempre da punti vendita di grandi catene multinazionali. Dietro le vetrine non ci sono più imprenditori commerciali pescaresi, ma giovani commessi sottopagati che vendono merce di infima qualità per il consumo di massa. Non esiste più un’identità, non c’è più quello scambio di esperienze e di conoscenza che arricchiva la città grazie alle innovazioni che importavano i più audaci sperimentatori, che giravano il mondo per tornare nella città di D’Annunzio a sorprendere con l’originalità delle loro scoperte e con le loro trovate esagerate. Pescara sta diventando una colonia del grande capitale straniero. Somiglierà, tra qualche anno, alle migliaia di città fotocopia che hanno subito prima di noi l’invasione.
La difesa dell’identità, del localismo, della conoscenza tacita che germoglia in un territorio e che è trasmessa da generazione a generazione anche nel tessuto imprenditoriale e commerciale, è un altro valido motivo per combattere questa invasione che omologa tutto e tutti. La globalizzazione va fermata con gli strumenti normativi di cui ci siamo privati in questi anni. Limitazioni alla circolazione di capitali, merci, servizi e persone, ma anche dazi e contingentamenti. Solo così possiamo salvarci da questo tsunami che sta cancellando la nostra storia.
Nù séme nù, si dice a Pescara. A dire il vero, amici miei, nù eravame nù, ma è ddamó che nìn séme cchiù nù!

Gianluca Baldini

E’ solo un’opinione

È “opinione della Banca Centrale Europea” che il programma di protezione dei depositi non sia più necessario:

 

La copertura dei depositi protetti e dei crediti  soggetti al programma di compensazione degli investitori dovrebbe essere sostituita da esenzioni discrezionali limitate concesse dall’autorità competente al fine di mantenere un certo grado di flessibilità“.

 

Per tradurre dal gergo “legalese” dei burocrati della BCE, questo può significare che l’attuale soglia dei depositi di 100.000 euro, attualmente protetti in caso di bail-in, potrebbe presto venire meno. Ma non preoccupatevi amici risparmiatori, perché la BCE è del tutto consapevole della rivolta che questo potrebbe causare, per cui sono stati così gentili da proporre quanto segue:

 

…durante il periodo di transizione, i depositanti dovrebbero avere accesso a un ammontare dei loro depositi garantiti adeguato a coprire il loro costo della vita entro cinque giorni lavorativi dalla richiesta

 

Che sollievo, dovrete aspettare solo cinque giorni prima che qualche “autorità competente” giudichi quale sia l’ “ammontare adeguato” che vi spetta del vostro denaro affinché possiate mangiare, pagare le bollette e andare al lavoro.

 

Quanto sopra è tratto da un documento della BCE pubblicato l’8 novembre 2017 e intitolato “Sulla revisione del quadro di gestione di crisi nell’Unione“.

http://vocidallestero.it/2017/11/21/zh-la-bce-propone-di-metter-fine-alla-protezione-dei-depositi/

I rimedi suggeriti non sono alla portata di un comune risparmiatore, ma li riportiamo per completezza, rimandando alla lettura dell’articolo originale.

Ultima chiamata

Nel 2018 si prospettano quindi due strade all’Italia: la capitolazione di fronte all’asse franco-tedesco o l’uscita dall’eurozona.

La prima soluzione equivarrebbe ad inasprire ulteriormente le politiche lato offerta (tagli alla sanità e pensioni, licenziamenti, etc. etc.), taglieggiare il risparmio privato (prelievo sui conti o patrimoniale), saccheggiare quel che rimane del patrimonio pubblico (riserve di Bankitalia, immobili e partecipate) e lasciare che le ultime medie-grandi imprese italiane passino in mano straniera. Preme per questa soluzione il “partito Draghi” (o “partito Bilderberg”) che annovera, oltre al governatore della BCE, Ignazio Visco, Giorgio Napolitano, Eugenio Scalfari, Ferruccio De Bortoli, Carlo De Benedetti, Paolo Mieli, Mario Monti, Romano Prodi, gli Agnelli-Elkann etc. etc. Il “partito Draghi”, in vista delle politiche 2018, punta sulla vittoria elettorale del Movimento 5 Stelle, cui andrebbe sommata in Parlamento la sinistra “prodiana”: il reddito di cittadinanza o provvedimenti analoghi sarebbero ottimi paraventi per completare con discrezione la definitiva spoliazione dell’Italia.

La seconda opzione, invece, prevede l’abbandono dell’eurozona di fronte ai diktat franco-tedeschi sempre più gravosi ed umilianti. L’uscita dalla moneta unica sarebbe emergenziale, dettata dal semplice istinto di sopravvivenza del nostro Paese: non esiste al momento “un partito dell’uscita dall’euro” analogo a quello che preme per il commissariamento (formazioni come la Lega Nord si sono appropriate della causa anti-euro per meri fini elettorali, senza possedere né prevedere alcun programma concreto per l’Italexit), anche se la vittoria della destra alle politiche del 2018 favorirebbe senza dubbio questa strada. L’unico “boiardo di Stato” ad aver apertamente contemplato un “piano B” è stato l’economista Paolo Savona, ex-ministro del governo Ciampi.

Leggi tutto su

http://federicodezzani.altervista.org/2018-italia-al-bivio-commissariamento-o-uscita-dalleuro/

I moderati, sive de grege

Dopo i risultati delle elezioni siciliane, praticamente tutti i giornali titolavano”Vittoria dei moderati”; abbiamo ripescato un articolo del marzo 2016 che li definisce.

di Il Pedante (http://ilpedante.org/post/i-moderati-sive-de-grege)
Wenn alle das gleiche denken, denkt keiner richtig. (Georg Christoph Lichtenberg)*

C’è un paradosso. Che quasi tutti gli eventi più estremi e sovversivi degli ultimi 150 anni di storia nazionale hanno contato sull’appoggio sicuro del cosiddetto pubblico moderato. I moderati: quelli che hanno applaudito i colpi di stato (la Marcia del ’22, la cacciata del governo nel 2011), che acclamano le guerre (prima e seconda mondiali, regionali in Serbia, Iraq, Afghanistan, Libia), che accettano la tortura (le camicie nere, i manganelli di Sceiba, la macelleria del G7), la discriminazione (gli ebrei prima, gli islamici poi) e le tirannidi purché amiche. Quelli che giustificano le scorciatoie dell’uomo forte al comando, subordinano i diritti e la dignità dei popoli alle favole economiche, sempre pronti a sottoscrivere deroghe allo stato di diritto in nome di un’emergenza (?), che spalancano le porte all’ingerenza straniera e sognano la dissoluzione dello Stato nazionale nell’abbraccio servile con le altre nazioni: Berlino, Washington, Bruxelles o-come oggi-tutti e tre assieme.
Giudicando gli esiti, i moderati sono tutto fuorché moderati. Dunque perché li chiamano così? Innanzitutto perché a loro piace farsi chiamare così. La moderazione – o temperanza,  σωφροσύνη, (aurea) mediocritas – è da millenni tra le virtù morali prescritte ai saggi. La lodava Aristotele nell’Etica Nicomachea, la raccomandava Cicerone nel libro sui doveri (De Officiis) e Tommaso d’Aquino ne fece una virtù cardinale del Cristianesimo. Sicché attribuire all’interlocutore il pregio della moderazione equivale a concedergli le insegne della saggezza e della rettitudine, con l’effetto – e quasi sempre anche l’intenzione – di blandirne l’amor proprio per guadagnarne l’assenso. In quanto al messaggio, poi, poco importa se sia davvero moderato e non viceversa foriero dei succitati cataclismi. Anzi, quanto più è estremo tanto più è d’uopo la captatio benevolentiae, via obbligata per carpire la fiducia dei semplici.
La moderazione ha un altro vantaggio per chi manovra il consenso. È un’etichetta vuota, una connotazione relativa che rimanda a un riferimento non dichiarato in modo da accomodarsi secondo la suggestione di ciascuno. In fondo, dirsi moderati senza specificare rispetto a cosa è come definire una lunghezza come il doppio della sua metà. Non dice nulla se non il bisogno di affermare il proprio equilibrio e la propria presunta superiorità e distanza rispetto a un’altra categoria ugualmente vuota ma specularmente infamante: l’estremismo.
Manipolare l’opinione di chi ama qualificarsi come moderato è quindi semplice:basta fissare d’ufficio gli estremi della dialettica con la certezza che il soi-disant moderato vi si collocherà disciplinatamente nel mezzo, in perfetta equidistanza dalle sponde. In questo modo il messaggio che si desidera accreditare non ha bisogno di essere esplicitamente asserito -come accadeva e accade nei regimi manifesti – ma è suggerito per induzione. Se volessimo far sì che il moderato pensasse al numero 8, gli diremmo di sceglierne liberamente uno tra 4 e 12. E lui cascherebbe prevedibilmente nella media:
Nella realtà, lo spin doctor accorto sa che si deve ridurre il più possibile la distanza tra gli estremi, per evitare un’eccessiva libertà di pensiero e la dispersione delle idee rispetto all’esito prestabilito. Il che spiega l’odierno Drang nach der Mitte, la centrizzazione del pensiero dove i cosiddetti estremi si qualificano sempre più come caute sfumature di un’opinione unica e centrale. Ad esempio, chi oggi chiede di tutelare la sovranità nazionale passa per nazionalista di ultradestra, mentre chi vorrebbe qualche protezione in più per i lavoratori è un comunista. Si tratta chiaramente di rappresentazioni parossistiche e strumentali al mainstream, laddove il vero estremismo è casomai quello di chi non riconosce in queste richieste un invito al rispetto della legalità costituzionale.
Il cosiddetto centro non è che lo stesso concetto di moderazione applicato ai movimenti politici. Ugualmente privo di significato in sé e ugualmente estremo negli atti, vive di ciò che i commentatori – cioè gli influencer- politici definiscono di volta in volta come massimalista. E poiché nessuno vuole portare l’onta dell’estremismo, tutti si accalcano verso il punto centrale di un recinto sempre più stretto – quello del pensiero unico – mentre il dibattito politico si riduce alni-rilevanza dei simboli e del gossip, in una bassa democrazia che discute del colore e della forma del cappio a cui andrà ad appendersi.
Tra i tanti esempi applicativi di questa tecnica di manipolazione di massa mi sovviene una prima pagina del 2003, all’alba della seconda guerra del Golfo. In un’Italia tentennante tra interventismo e astensione (essendosi in realtà già deciso altrove per la prima opzione), mi imbattevo in un doppio editoriale dal titolo “Opinioni a confronto”. Qui il primo articolista sconsigliava il ricorso alle armi proponendo di limitarsi (!) a un inasprimento delle sanzioni contro l’Iraq, mentre il secondo invocava una più esemplare azione di forza punitiva. La dialettica era naturalmente falsata e unilaterale: entrambi gli articoli accettavano infatti la necessità di colpire duramente uno stato sovrano, cosicché al moderato non restava che posizionarsi nello stretto margine tra l’estremo e il più estremo, escudendo dal suo orizzonte intellettuale l’ipotesi stessa di noninfliggere sofferenza e caos a milioni di persone innocenti. Che poi sarebbe il minimo per chi coltivasse davvero la virtù della moderazione.
La complessità mentale del moderato è quella di un organismo monocellulare. Prevedibile e manovrabile al millimetro, ha l’ulteriore vantaggio di prediligere lacosmesi del simbolo rispetto agli atti. Plasmato da decenni di retorica, egli si pasce di suggestioni, rappresentazioni e slogan, minimizzando così lo sforzo di chi si candida a manipolarne l’opinione. Un tailleur, un loden, un discorsetto sui diritti gay e un eloquio pacato valgono più di mille cronache per accendere in lui l’illusione di un equilibrio sobrio e meditabondo. Al contrario, uno scampolo di turpiloquio, un’intemperanza o una deviazione sia pur minima dal conformismo etico e parolaio dei più lo fanno gridare all’estremismo, purché opportunamente serviti con contorno di editoriali salottieri e distaccatamente indignati.
Una volta confezionato per via mediatica, l’estremo da cui rifuggire si trasfigura nella suggestione dell’opinione moderata in esiti apocalittici e spaventosi. Esiti di cui ovviamente non c’è traccia nella realtà e che pertanto ne travalicano i confini lambendo i territori dell’incubo e del grottesco: “Di questo passo – chiosa il benpensante – dove andremo a finire?”. Nel suo microcosmo culturale gli euroscettici sono folli promotori di un’Europa fratricida e pronta a ripetere i massacri delle guerre mondiali, chi mette in discussione la moneta unica un pericoloso fomentatore di miseria e inflazione a due cifre, chi critica le politiche migratorie un nostalgico dei muri spinati di Auschwitz, chi si oppone alla privatizzazione e liberalizzazione di tutto uno stalinista nemico della libera iniziativa economica, chi fa politica dicendo le parolacce un ambasciatore di barbarie, chi declama il primato della famiglia tradizionale un bigotto a la Torquemada, chi si interroga sulle vaccinazioni un untore, chi denuncia le politiche israeliane un antisemita, chi predilige i prodotti nazionali un autarchico ecc. A conferma del fatto che il moderato è necessariamente- non eventualmente – un estremista, in quanto appunto allevato nella rappresentazione ossessiva dell’estremo.
Come tutti i pensatori elementari, il moderato avverte il bisogno di dare un volto alle sue paure. Egli cerca il cattivo per conferire senso alle vicende del mondo, siccome l’orco e la strega danno senso alle fiabe. E i fabbricatori dell’informazione lo sanno bene, e sono più che pronti a soddisfarne la fame di orrore: con i Salvini, le Le Pen, i Gasparri, gli Orban, i corrottissimi autarchi delle steppe, i satrapi dissoluti del continente nero e gli sceicchi del terrore da mille una notte. Una galleria sinistra e letteraria popolata non dai protagonisti di storie da approfondire, ma da personaggi che incarnano l’estremo in quanto oggetto da odiare, mostri mitologici messi a guardia di un recinto mentale che non va oltrepassato affinché il gregge non si disperda nei pascoli del libero pensiero.
In questa allegoria i fatti si annullano e più spesso si ribaltano, essendone l’occultamento uno dei fini. Nelle presidenziali americane in corso il cattivo è Donald Trump: perché è intemperante, aggressivo e razzista. Il che è probabilmente vero, ma vieppiù inquietante è il fatto che la sua rivale, la signora Clinton, sia invece accreditata dall’opinione pubblica come il polo moderato della sfida. Mettendo così sullo stesso piano le sparate verbali di un Berlusconi al cubo con i fatti atroci e documentati ascrivibili alla cinica ambizione della donna. La stessa che dopo avere votato l’invasione dell’Iraq con un pretesto consapevolmente falso e lasciando sul terreno un milione di morti, nel 2011 si è fatta principale sponsor politico dell’intervento in Libia, ribattezzato dai giornali Hillarv’s war: la guerra di Hillary. Anche qui persero la vita decine di migliaia di persone innocenti e un paese florido e politicamente stabile fu devastato e consegnato all’anarchia. E lei? Se ne vantò ridendo in prima serata: “We carne, we saw, he died”.
Si scoprì poi che tra i fini della moderata Hillary, l’amica dei moderati italiani che ride della morte altrui, c’era anche quello di strapparci con le armi le concessioni petrolifere in Libia. Ma la signora è donna, si dice democratica e cosmopolita e dispensa carezze alle portoricane del Queen. E tanto basta per sostenerla.
II caso – e i moltissimi ascrivibili allo stesso paradigma – rivela un aspetto centrale della psicologia dei moderati, cioè l’inclinazione ad anteporre nella gerarchia dei pensieri le conseguenze immaginabili dei fatti ai fatti stessi. Ciò preoccupa perché integra una forma di alienazione o paranoia collettiva dove i diritti dell’immaginazione prevalgono sulla realtà e la potenza sull’atto. Mentre si chiedono angosciati di che cosa sarebbe capace un Trump, non si curano di ciò di cui è stata capace Hillary. O per fare un esempio a noi più vicino, mentre paventano le conseguenze di un’uscita dell’Italia dal baraccone europeo, non registrano che quelle stesse conseguenze – disoccupazione, diminuzione del potere d’acquisto, instabilità finanziaria, insicurezza dei risparmi, cessione di asset nazionali, delocalizzazioni produttive, emigrazione giovanile, aumento del debito pubblico, conflittualità tra gli Stati ecc. – si stanno verificando dentro l’Unione e a causa dell’Unione. Il moderato non è programmato per i fatti e non impara nulla dalla storia, neanche quella a lui contemporanea. A tutto vantaggio di chi lo manovra, che non potendo alterare gli eventi storici può invece comodamente scrivere e riscrivere le fantasie che lo orientano nel giudizio.
Spesso mi sono chiesto quali siano i moventi psicologici che spingono i sedicenti moderati a dichiararsi tali e a sottoporsi a un processo di manipolazione così umiliante. Oltre al già detto bisogno di affermare la propria degnità morale, la risposta credo sia da cercare nella qualità estetica dell’apparato mediatico che sostiene l’operazione. I protagonisti e le istituzioni dell’opinione moderata – i quotidiani storici, i salotti televisivi, le firme di Mieli, Mauro, Severgnini, Scalfari, Romano, Galli della Loggia, Ostellino e i volti di Vespa, Fazio, Floris, Mentana e mille altri, se non tutti – incarnano un rassicurante cliché altoborghese che non ha mai smesso di affascinare la nostra classe media. Un cliché senza tempo sotto i cui abiti di sartoria pare indovinarsi una cultura profonda ma non esibita, una proprietà di giudizio che si impone senza urla né insulti, una signorilità indulgente che sa sorridere delle debolezze umane. Ma soprattutto, il savoir-vivre degli uomini di mondo che con accorta eleganza scivolano da un sistema di potere all’altro senza sporcarsi il vestito e cadendo sempre in piedi, quasi appartenessero a una civiltà a sé che trascende gli accidenti storici e se ne immerge senza corrompersi. Ciò che qualcuno – incluso chi scrive – definirebbeprostituzione intellettuale è invece per molti un modello di realizzazione personale e sociale da imitare: di chi si piega (al padrone di turno) ma non si spezza.
II moderato è quindi all’origine un conformista nel senso pieno del termine, in quanto desidera appunto conformarsi all’asettico decoro stilistico e materiale dei sempre-amici del principe, dei quali riconosce solo strumentalmente – cioè per viam imitationis – anche l’autorità intellettuale. Perché in fondo non vuole essere, non cerca un’identità propria. Vuole anzi non essere: provinciale, razzista, fascista, immaturo, populista, omofobo, impulsivo, semplicista, italiano-medio e insomma tutto ciò che nella vulgata del momento lo distinguerebbe dal modello astratto a cui occorre uniformarsi per non stonare nella mandria dei “buoni”.
La fortuna di questa operazione di marketing mediatico e sociale non ha mai conosciuto crisi. Dall’Unità nazionale ad oggi vi si è coltivato un serbatoio di consensi a cui i potenti di turno hanno attinto per legittimare se stessi e i loro atti, anche e soprattutto i più osceni. Un serbatoio di consensi pregiati, perché espressione delle classi mediamente più colte e facoltose, le stesse che amano informarsi e dibattere, diffondere le opinioni e dare vita a movimenti, iniziative a supporto di un’idea e finanche scrivere libri. Non stupisce allora che i partiti politici e gli organi di informazione si contendano l’etichetta di moderati e l’attenzione di quel pubblico: perché i moderati sono la spina dorsale del potere, gli utili inconsapevoli sempre pronti a reggergli il gioco. Qualsiasi gioco.
Alcuni giorni fa il  Corriere della Sera,  organo indiscusso della categoria qui descritta, ripubblicava in occasione del 140° anniversario dalla fondazione il celebre editoriale di Eugenio Torelli Viollier “Al pubblico” apparso sul numero 1 del giornale. Rileggerlo oggi fa quasi spavento. La parola “moderato” vi appare 12 volte e, se non fosse per la prosa datata e i diversi riferimenti storici, potrebbe essere stato scritto ieri. Qui c’è già tutto.
La captatio benevolentiae:
Pubblico, vogliamo parlarti chiaro. In diciassette anni di regime libero tu hai imparato di molte cose. Oramai non ti lasci gabbare dalle frasi. Sai leggere fra le righe e conosci il valore delle gonfie dichiarazioni e delle declamazioni solenni d’altri tempi. La tua educazione politica è matura. L’arguzia, Yesprìt ti affascina ancora, ma l’enfasi ti lascia freddo e la violenza ti da fastidio.
L’epica dell’austerity:
Come il cavaliere templario della ballata di Schiller, il partito moderato mosse diritto almostro del disavanzo, con un mastino al fianco. Questo mastino si chiamava l’Imposta – bestia ringhiosa, feroce, spieiata; ma senz’essa era follia sperare di vincere. L’Italia unificata, il potere temporale de’ papi abbattuto, l’esercito riorganizzato, le finanze prossime al pareggio, – ecco l’opera del partito moderato.
La fregola di congiungersi con i popoli tedeschi:
In grazia loro [del Governo] si è udito Francesco Giuseppe d’Austria dire a Vittorio Emanuele: «Bevo alla prosperità dell’Italia», e Guglielmo di Prussia: «Bevo all’unione de’ nostri popoli».
Il fastidio per la democrazia:
E però ci accade […] di non voler il suffragio universale, se l’estensione del suffragio deve porci in balia delle plebi fanatiche delle campagne o delle plebi voltabili e nervose delle città.
Ma soprattutto, la definizione più precisa e rivelatrice dell’ethos politico moderato: essi sono “conservatori prima, moderati poi”, appartengono cioè al partito […] che ha avuto finora le preferenze degli elettori, – e per conseguenza il potere. Questo partito cadrà un giorno, perché tutto cade, tutto passa a questo mondo…
… ma non i moderati. Loro sono ancora qui, eterni anche nel nome, sempre pronti a schierarsi con il più forte, fieri di essere servi e penosamente illusi di custodire la coscienza civile di questo Paese.
Come si fa a non disprezzarli?
 * Se tutti pensano la stessa cosa, nessuno pensa correttamente

Ricordando Orwell

Non so se George Orwell, quando scrisse “1984”, si rese conto di cosa e, soprattutto, di “quanto” scrisse in quelle pagine che dovettero transitare nella sua mente come un grande sogno, od incubo, prima di finire impresse sulla carta. Mistero della scrittura onirica: viene da chiedersi se grandi e libere menti, da oltre la “siepe”, ci aiutino nel comunicare, perché si comunichi ad altri, in una catena senza fine.

Stamani, quando mi sono accorto che mancava la corrente, lì per lì mi sono girato dall’altra ed ho continuato il dormiveglia tranquillo ma, sentendo mia moglie armeggiare con i pulsanti di contatore, ho capito che era meglio scendere dal letto.

Tutto nero, senza il minimo rumore: manca il ronzio del frigorifero, il bagliore della stufa a pellet, silenzio assoluto. Fuori, alle prime luci di un’alba scura, piove lentamente e tutto indica tranquillità e sopore ma mia moglie insiste: chiamo l’ENEL.

Dall’altra parte, la solita voce di un call centre che sarà a Bari o a Tirana, risponde d’inserire il codice vattelappesca “che troverà sulla bolletta”: oh certo…al buio, mi metto a scartabellare le vecchie bollette…per fortuna mi salva la domanda di riserva, ossia il numero del vecchio telefono fisso (che, per sola pigrizia, non abbiamo ancora eliminato) e la voce, rassicurante, comunica “che nella zona sono segnalati malfunzionamenti, ma che per le 10 del mattino tornerà la corrente”. Sono le 10.35, ma dell’agognata corrente nemmeno un misero Ampère.

Inutile cercare d’attendere di poter parlare con “l’operatore”: dopo una decina di minuti (dei tre comunicati come tempo d’attesa) preferisco risparmiare la batteria del cellulare. Uno sguardo al web, dal telefonino, non racconta niente: un black out nel savonese di una decina d’ore non merita menzione, così come la Val di Susa bruciata fino alle cime dei monti non doveva esistere come notizia…e qui mi è comparso il vecchio George che diceva “Ricorda…le notizie, la realtà, deve per prima cosa scomparire…noi non sappiamo se l’Alleanza Occidentale combatte con noi o contro di noi, non sappiamo se il bombardamento dei porti del Pacifico sia veramente avvenuto…non sappiamo niente di niente, e rischiamo la vita per sapere qualcosa…”

In compenso, veniamo costantemente informati delle vicende di un tal Briatore, di un certo Sgarbi, o dei ricordi a luci rosse di Sandra Milo: rumore, un fiume di notizie inutili che dovrebbero servire a rallegrare un Paese triste, ma anche ad oscurare – in mezzo a tanto bailamme – ciò che sarebbe meglio che non sapessero.

Come i poveri morti del rifugio appenninico crollato per il terremoto, che – prima d’esser morti – chiamarono fiduciosi il 118, e non vennero creduti.

Richiamo, per sapere novità e la solita vocina aggraziata mi comunica che la riparazione del guasto è posticipata alle 12.30: allora, siamo in presenza di un black out abbastanza importante, non di una misera cabina dove sono bruciati i fusibili.

Il riscaldamento non può partire (pompa di circolazione elettrica), la stufa a pellet per la stessa ragione: si sta al freddo. Ma non è questo il guaio.

Mia moglie, stamani, si è recata in visita presso conoscenti che hanno una persona molto, molto malata e che rimane perennemente a letto. Per alzarla (è molto grassa) si sono attrezzati con un sollevatore meccanico, che funziona a corrente elettrica. Starà nella merda.

Ci sono migliaia o centinaia di migliaia di persone (non so quanto è esteso il black out!) che si trovano a dover risolvere problemi gravi e meno gravi, ma la notizia non s’ha da dare: intorno a me, garriscono i generatori a petrolio dei vicini.

Immagino un consiglio d’amministrazione dell’ENEL, dove presentano le scelte da fare nel prossimo futuro:

1) Incrementare le forniture e gli approvvigionamenti, mediante i quali il fatturato salirà da Tot1 a Tot2. Approvazione piena da parte dei grandi azionisti.

2) Incrementare la manutenzione dei sistemi esistenti, ma – in questo caso – ci saranno dei costi…diciamo che l’incremento da Tot1 a Tot2 sarà esiguo, probabilmente nullo. Coro di disapprovazione.

Ciò di cui non si rende conto questa gente, mentre immagina la grande macchina che produce denaro – svelta ed impeccabile nei risultati – è che non è per niente così: l’imprevisto è sempre in agguato, e questi sono imprevisti da niente. Allarme arancione – anche il lessico fa la sua parte – “Allarme”, ossia “state in guardia”, quando a non stare in guardia sono proprio loro, che a fronte di una Domenica appena un po’ piovosa d’Autunno – senza allagamenti, “bombe d’acqua” (ancora il lessico…), trombe d’aria, venti ad oltre 50 nodi, neve, ghiaccio, ecc – s’arrendono come studentelli alla prima gita scolastica e proclamano il timore d’immani tragedie.

Se non mancasse la corrente, sarebbe solo un’uggiosa ed un po’ noiosa Domenica d’Autunno: perché deve diventare un “allarme arancione”?

I veri allarmi sono altri: li sapranno?

Nel 1883 esplose il vulcano di Krakatoa e si generò lo stretto della Sonda: immane catastrofe, navi catapultate sui monti, enormi massi erratici scagliati a 100 km di distanza, ferrovie contorte come fuscelli, 40.000 morti. L’esplosione fu udita dall’Australia al Madagascar, ossia a 3000 miglia di distanza: viene considerato il più forte boato mai udito in epoca storica. Le polveri lanciate in aria dal vulcano oscurarono parzialmente la radiazione solare per un intero anno: si può affermare che l’agricoltura si “fermò” ovunque, per un’intera stagione agricola.

Siccome in quell’area le zolle tettoniche girano come sulle montagne russe, da quell’esplosione nacque un altro sistema vulcanico, Anak Krakatau (figlio di Krakatoa), che le autorità indonesiane hanno dichiarato zona off limits per la navigazione, vista la brutta abitudine del “giovane” vulcano d’alzare improvvisamente il livello delle acque marine: stavi pescando, e ti ritrovi su una montagnola di cenere. Probabilmente, lì si generò la grande onda anomala che distrusse Sumatra alcuni anni or sono. Ma c’è di peggio.

Nel 1859 ci fu una tempesta magnetica che interessò tutto il Pianeta. Siccome le tempeste magnetiche – in un mondo privo di macchine elettriche, al massimo facevano impazzire le bussole delle navi – non ci furono danni, salvo l’interruzione delle prime comunicazioni telegrafiche.

Non si hanno abbastanza notizie storiche sulla frequenza di questi eventi: oggi, cosa accadrebbe?

I sovraccarichi sulle grandi linee di trasporto elettrico si scaricherebbero sui grandi trasformatori di rete in una frazione di secondo e li brucerebbero all’istante: per ovviare a tali danni, bisognerebbe conoscere in anticipo l’arrivo di una tempesta magnetica e la sua entità per, immediatamente, staccare la rete mondiale dalle fonti di produzione. Una prospettiva che prevedrebbe una struttura mondiale in grado di prendere decisioni di tale portata in pochissimo tempo e senza intralci.

Beh – direte voi – si cambiano i trasformatori…

I trasformatori sono macchine statiche, ovverosia soltanto un anello (o quadrato) di comune Ferro ed avvolgimenti di cavo di Rame: niente di tecnologicamente difficile da produrre.

Il guaio è che queste macchine – proprio perché statiche – sono molto longeve, e dunque la produzione di questi grandi trasformatori è scarsa, praticamente si produce soltanto per nuove linee e centrali di distribuzione dell’energia e per (rare) sostituzioni.

Siccome le aziende produttrici sono poche, e i grandi trasformatori pesano tonnellate, per sostituire tali macchine sulla rete mondiale ci vorrebbero parecchi anni. Altro che black out di 12 ore per una centralina in avaria!

Inutile dire che non esiste nessun piano, concordato anzitempo a livello internazionale, per trovare rimedi a queste calamità che si presentano abbastanza frequentemente nella Storia: in sostanza, sono soltanto aurore boreali d’intensità di gran lunga superiore, dipendenti dai “capricci” del Sole.

Peccato che la Storia delle calamità naturali sia ancora scarsa di dati e poco conosciuta: non andiamo fino al disastro di Toba di 75.000 anni or sono, laddove la popolazione mondiale fu quasi azzerata. Difatti, i biologi s’attendevano una maggior varianza genetica nel genere umano ma, probabilmente, Toba fu una “seconda nascita”: per poco (si stima una sopravvivenza all’evento di poche migliaia o decine di migliaia d’individui) non ci estinguemmo 75.000 anni or sono.

Morale.

Il capitalismo, in realtà, ha smesso da tempo di soddisfare le necessità umane, e di cercare di cautelarsi prevedendo i possibili rischi: si è avvitato in una spirale d’investimenti e profitti che trascende dalla realtà esistente. Si scommette sulla clemenza degli eventi naturali per fare profitti, e si tenta in ogni modo di nascondere ciò che potrebbe suscitare dei dubbi. Una roulette, sulla quale cala un panno quando esce lo zero. Di questa serie fanno parte gli OGM, il riscaldamento globale e tanti argomenti sui quali ci vogliono schierati a chiacchierare e magari ad azzannarci. Senza, ovviamente, prevedere dei rischi che sono reali, comprovati da veri eventi storici: farebbero perdere tempo, troppi pensieri, meno investimenti.

Allo stesso tempo, però, c’è la necessità di far vivere le popolazioni in uno stato d’ansia e d’eccitazione affinché non si ribelli, mediante una comunicazione mirata a debellare ogni speranza d’autosufficienza: un attentato ogni tanto serve, la cronaca nera deve essere assillante, ecc, mentre – sull’altro versante – un mare di notizie ed intrattenimenti che, scatenando la libido, favoriscano la favola dell’eterna cornucopia per molti, ma non per tutti perché gli altri non sono ancora abbastanza “bravi” per godere di quei frutti: corri, ragazzo, corri!

Per questa ragione i giornalisti televisivi sono le figure più pagate dal sistema: ancora una volta, Orwell…

In realtà, solo il 3% della popolazione mondiale gode pienamente i frutti del capitalismo, in Italia circa il 10% (che possiede la metà della ricchezza) e alle masse di diseredati (come ben ricorda Serge Latouche) si presenta il simulacro della scommessa vinta dal mondo Occidentale contro la Natura e contro tutte le avversità. Noi siamo i vincenti: imitateci!

Cosa rispondono?

Beh, se ci sono dei danni, anche gravi…assicuriamoci!

Oh certo, così mangeremo il denaro delle assicurazioni…sempre che, in un Pianeta privo d’energia elettrica per anni, si trovi ancora un assicuratore…vivo!

http://carlobertani.blogspot.it/2017/11/ricordando-orwell.html

Ritorno alla sovranità

occorre tener presente che una prospettiva deglobalizzatrice immaginata in chiave esclusivamente nazionalistica non conduce da alcuna parte in quanto genera, nel periodo medio lungo, ripiegamento localistico e chiusura sciovinistica, se non viene coniugata in un’accezione eurasiatista, ossia di costruzione di un vero e proprio blocco geopolitico continentale

apoforeti

il modello politico propugnato dal gruppo dirigente contiguo a Vladimir Putin in Russia è percepito, dalle classi popolari dei Paesi della Ue, come estremamente più democratico del modello di “liberalismo reale” promosso dal ceto dirigente sistemico, di centrodestra e di centrosinistra, rappresentato da personaggi quali Cameron, Hollande, Berlusconi, Sarkozy, Merkel e Renzi. In questo senso, è perfettamente comprensibile il voto massivo di operai, impiegati (un iscritto su quattro al sindacato francese Cgt, politicamente su posizioni di sinistra, per dichiarazione stessa del segretario generale della nominata centrale sindacale “rossa”, Philippe Martinez, «vota per il FN»), piccoli e medi imprenditori e disoccupati, ossia i cosiddetti “defraudati”, “marginalizzati” e “sradicati” dai processi di globalizzazione, ai partiti europei cosiddetti “populisti”, dal Front National al FIDESZ; partiti, questi ultimi, apertamente favorevoli all’innesco di una serie di dinamiche di risovranizzazione (politica, economica, culturale, monetaria e, in parte, anche militare) degli Stati nazionali del “Vecchio Continente” (naturalmente…

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I populisti fanno paura

Allora stiamo ai fatti, ai protagonisti e ai precedenti che già conosciamo. Cominciando da Draghi. Fu proprio alla vigilia di altre elezioni politiche, quelle del 2013, che il governatore della Bce decise di intervenire pubblicamente per rassicurare i mercati, turbati dalla prospettiva che a Monti potesse succedere un premier populista, con la famosa formula del “pilota automatico”. Con quella dichiarazione, così stentorea e rivelatrice, Draghi intese comunicare al mondo finanziario, ma indirettamente anche ai politici e ai cittadini italiani, che chiunque avesse vinto le elezioni sarebbe stato comunque vincolato all’agenda dell’austerity e dei “compiti a casa” dai meccanismi forzosi già approntati a tale scopo dalle tecnocrazie europee politiche e monetarie. Quello del 2013, peraltro, non fu il primo intervento di Draghi nelle vicende della democrazia italiana. Il primo, tuttora molto discusso, era avvenuto nel 2011 quando l’allora neo-governatore firmò, insieme all’uscente Jean-Claude Trichet, la famosa lettera con cui la Bce commissariava di fatto Berlusconi, dettandogli per filo e per segno tutto ciò che avrebbe dovuto fare se proprio avesse voluto intestardirsi a non abbandonare l’incarico. Detto di Draghi, bisogna ora dire delle agenzie di rating che da qualche tempo si intromettono con fenomenale puntualità in ogni tornata elettorale – italiana, europea od internazionale – nella quale un partito anti-sistema abbia concrete chance di giocarsi la vittoria. E anche questa volta le “tre sorelle” stanno già assaggiando il campo di gioco con giudizi di affidabilità che, al di là delle apparenze, appaiono del tutto convergenti nel descrivere l’esercizo, libero e democratico, del voto come ciò che minaccia la ripresa economica. Continuiamo ad ancorarci ai fatti e alle parole ufficiali. Agli inizi di ottobre Moody’s conferma il rating italiano al livello Baa2 ma decretando un outlook negativo in ragione delle “considerevoli incertezze sulle priorità politiche del prossimo governo e sul ritmo delle riforme economiche e fiscali nei prossimi anni”. Il 20 ottobre anche Fitch, pur riconoscendo all’Italia un’economia “diversificata e ad alto valore aggiunto”, un sistema pensionistico “sostenibile” e un “moderato” indebitamento privato, sceglie di mantenere il rating italiano al livello BBB adducendo, indovinate un po’, il “rischio di un Governo debole e di partiti populisti ed euroscettici che influenzino le politiche dopo le elezioni di marzo”. La scorsa settimana, infine, c’è stata la sorpresa, celebratissima dal premier Gentiloni, della promozioncina accordataci da Standard & Poor’s: da BBB/A3 a BBB/A2. Ma la polpetta, al solito, appare avvelenata. La conferma della promozione suona infatti condizionata a come decideremo di votare: “l’incertezza politica legata all’esito delle prossime elezioni generali – scrivono gli analisti di S.&P.’s – potrebbe pesare sulla performance economica dell’Italia e sulle condizioni del settore finanziario…”. Insomma: con la carota della persuasione o con il bastone della dissuasione, le agenzie di rating sono nuovamente scese in campo per mettere pressione sul voto. Ma ciò che è peggio è che, prima di loro, anche le portaerei della finanza avevano già puntato il cannone su di noi. Ai primi di ottobre l’americana Bridgewater, il fondo speculativo più grande al mondo, ha fatto sapere di avere incardinato una scommessa al ribasso sull’Italia del valore di un miliardo e 300mila dollari, puntando 700 milioni contro le nostre banche e 600 milioni contro gli asset strategici di Enel e Eni. E siccome la speculazione tende a muoversi in branco una volta fiutata la preda, è probabile che altri fondi decidano di scommettere contro l’Italia potendo così cogliere due comodi piccioni con la stessa fava: lucrare facili guadagni e condizionare le scelte politiche. Ecco perché sarebbe stato non solo opportuno, ma doveroso, che la Bce posticipasse la riduzione del Quantitative Easing di altri tre mesi. In questo modo avrebbe impedito ai croupiers della globalizzazione finanziaria di partecipare alle elezioni italiane sterilizzando, almeno in parte, l’impatto materiale, ma anche psicologico, delle loro manovre sul mercato. La mia personale e desolata sensazione, invece, è che la Bce gli abbia vidimato la scheda. Fonte: Interesse Nazionale

https://www.controinformazione.info/i-populisti-fanno-paura-e-la-bce-libera-lo-spread/

Sic transit gloria mundi

La casa dalle finestre che ridono

terzapagina

Ufficiale del Genio, ingegnere, insegnò Architettura militare e, in quest’ambito, si occupò di ricerche storiche; intervenne nel restauro di Castel S.Angelo con pesanti e criticate ricostruzioni.

Gli fu conferita la Legion d’onore nel 1904.

Diresse poi dal 1925 il Museo allocato nella restaurata Mole Adriana: creato dal Capitano del Genio Mariano Borgatti, fu inaugurato nel 1906 come Museo dell’Ingegneria Militare all’interno di Castel Sant’Angelo.

Nel 1911 fu trasferito nelle Casermette di Urbano VIII adottando la denominazione di Museo Storico del Genio Militare. Nel 1928 accanto al Museo venne creato l’Istituto d’Architettura Militare. In seguito alla decisione, nei primi anni ’30, di destinare a parco pubblico l’area intorno a Castel Sant’Angelo, il Museo e l’Istituto furono trasferiti nella Caserma Piave, dando origine all’IstitutoStorico e di Cultura dell’Arma del Genio (ISCAG). Dal 1939 l’Istituto occupa l’attuale sede, costruita proprio per ospitarlo. Il Museo espone i materiali usati dall’Arma in epoche diverse…

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