GIOVAN BATTISTA SANTINI – Pittore del Novecento Toscano

MIO PADRE: PROFILI
Tedice Santini
Non avevo certo né preparazione, né capacità sufficienti per valutare la pittura di mio padre o quanto scriveva o le sue fughe nella matematica – da lui prediletta, da me odiata – però, già da ragazzo, mi incantava il suo modo d’agire, la disinvolta originalità del comportamento, la maniera di risolvere le cose, sempre elegante, fuori dagli schemi, nel disprezzo di forme e convenzioni, se sciolte da doveri morali o d’educazione, da lui, invece, rispettatissimi.
Avvertivo in lui il senso dell’essenziale, una scala di valori semplice, solida, netta, dove affetti, dovere, bellezza dominavano ed era scartato quanto lustrava senza sostanza o nasceva da vuota convenzione. Nel suo agire spiccava, allo stesso tempo, una forza vitale prepotente, nel corpo e nello spirito.
A volte, la sua era una logica così elementare da sembrare bizzarra.
Un lembo della cravatta era lunga? Rimediava con le forbici. Difficile, all’alba, inquadrare una beccaccia nel mirino? Bastava sostituirlo con un chiodo tinto di bianco, come appunto fece. Mancava la carta da scrivere? Poco male, stendeva la calligrafia nitida e ferma su quella gialla del pane. Uno sbadato spazzino rovesciava un bidone? Lo aiutava a rimediare.
A casa, spinta dallo scirocco buffante, l’acqua del terrazzo spesso allagava il salotto, stanco del problema ricorrente, mio padre volle bucassi il pavimento con lo scalpello. Eseguii su due piedi, alla sua presenza. La soluzione, poco rispettosa del “salotto da ricevere”, destò in casa e fuori stupore e critiche, ma fu ottima: l’acqua defluiva in cantina dove lo sterrato l’assorbiva senza danno. Il buco c’è tutt’ora.
La stessa immediatezza – debbo dire – lo guidava al nocciolo dei problemi, al cuore delle situazioni, complici sensibilità ed intuito particolari. Difficilmente il tempo smentiva il giudizio dato di primo acchito su qualcuno o qualcosa.
L’imbarazzo degli altri per certe sue spicce soluzioni lo lasciava indifferente. Si stupiva anzi, dello stupore altrui, quando – ad esempio – cedeva la poltrona al cane, fiaccato dalla caccia, o rivoluzionava la casa per salvare una coccinella entrata per sbaglio. Quanto più le mareggiate infuriavano e le onde spazzavano il molo vecchio di Viareggio, tanto più mi portava, da bambino, sulla cima a respirare iodio. Ci prendevano per matti, ma io sentivo la sua mano forte ad abbrancarmi. Era disapprovato quando mi appendeva agli alberi perché imparassi ad arrampicare o quando rastrellava i fiaschi vuoti e li gettava perché li spaccassi a mezz’aria con la carabina.
In novembre, sotto la pioggia, battevamo a giornate sponde e fossi, dietro la beccaccia, sguazzando nel fango. Una sera che rientrammo più bagnati che mai, il papà mi mise in mano un suo paio di scarpe eleganti da passeggio. Volle piantassi nei tacchi tre chiodi “antiscivolo”, poi col temperino fece grandi aperture nelle tomaie. “Bagnati per bagnati – sentenziò – così almeno l’acqua che entra esce e non c’è il peso dello scarpone”. Chi gli vedeva quelle scarpe ai piedi inorridiva, ma lui spiegava, senza scomporsi, che erano il felice incrocio fra sandalo e scarpone.
Preferivo la filosofia alla matematica. Lui diceva, dispiaciuto, che un giorno avrei trovato il loro punto di incontro. Per dimostrarmi la parentela e guadagnarmi almeno un po’ ai numeri faceva acrobazie attraverso questioni e problemi che evocavano in modo suggestivo quanto originale il fantasma dell’infinito nel tempo e nello spazio. Ho il rammarico di non ricordarle e quello di non aver mai dato a lui, su quel terreno, la minima soddisfazione.
Se avesse potuto, avrebbe abolito tutti i mezzi di trasporto, salvo il cavallo, la bicicletta e l’aereo. Il primo perché “amico prima che veicolo”, la seconda perché “non turbata dal motore”, il terzo perché “solo dall’alto si capisce la disposizione delle cose”.
Era terrorizzato dai moduli. Se doveva sfornare su due piedi un racconto o un articolo non si scomponeva, ma il più semplice questionario o – Dio se ne guardi! – la denuncia dei redditi lo mandavano in bestia. Avrebbe gradito – diceva – sfidare a duello il ministro delle finanze, non per le tasse, ma pechè gli pesava firmare la denuncia dei redditi garantendone l’esattezza, pur non essendo in grado di farlo. Si sentiva offeso.
A proposito del duello, va detto che lo rimpiangeva. Sosteneva infatti che certi valori di notevole rilievo per il singolo e per la società non trovano adeguata tutela nella legge, restano sotto la soglia del codice e che unico modo per difenderli e rimediare al dannoso buco sarebbe il duello, anche se esecrabile. Da studente di legge dissentivo: ho visto poi che anche insigni giuristi erano del suo parere.
Per l’apertura di caccia – antico e sacro rito familiare – era d’obbligo partire la sera prima. L’alba ci trovava ai piedi d’un paretone roccioso dove la coturnice lanciava ai primi chiarori, il suo “cré cré” come una sfida. Dormivamo nei pressi, tra il fieno d’una capanna. Prima di coricarsi mio padre, nel terrore delle pulci, esigeva una spruzzata di flit, unica parentesi concessa alla civiltà. Provvedevo usando lo spruzzatore per la vernice dei quadri e la boccetta di flit che il papà si portava dietro.
Non avrebbe cambiato quella capanna, sospesa nel silenzio e nella notte, col migliore albergo, perché – diceva – c’era odore d’erba e non di “sporco lustrato”.
Quanta gioia trovava nei silenzi dell’Appennino, nei suoi colori, nel fascino sottile della caccia!
Sempre ho avvertito in mio padre dietro l’humor, gli sprazzi d’allegria, la conversazione brillante che in ogni salotto spiccava, l’ombra nera dei grandi problemi esistenziali, la visione cruda del dolore universale. Mai ebbe il dono della serenità, cadde anche in cupi, lunghi periodi di nevrastenia, eppure la sua poteva essere una vita felice accanto a una donna che lo ha adorato e che lui adorava. Era, in realtà, un pessimista, illuminato – però – da grandi entusiasmi, da ideali forti, dalla ricchezza degli affetti, animato da una forza vitale straordinaria. Guardava al creato e al suo eterno tendere, che bruciava anche in lui con commossa suggestione e la sua pittura correva – appunto – sul filo di questa emozione costante, nasceva da un’ansia continua. Doveva dipingere, perennemente dipingere, in una corsa senza fine, per affidare alla tela qualche goccia di quell’emozione, sempre nuova, sempre antica.
Lo faceva per sé, non per gli altri, indifferente al loro giudizio ed al valore dei quadri che per lui non erano il fine ma il mezzo per placare almeno un momento la sete. Appena sfornati, bisognava levarglieli di mano perché non li distruggesse, non dipingesse sul retro o sopra, non li usasse per il camino. Ai suoi occhi erano un passo troppo breve, troppo misero verso ciò che lui inseguiva senza pace. Distrutto il quadro, la corsa riprendeva, affannosa.
Sono poche a Castiglione le case dove non sia un suo quadro, nessuna – credo – dove non viva l’affettuoso ricordo di lui.
Un giorno mi disse, guardando un turbato cielo autunnale “come vorrei tradurre la luce e il sole!” certi suoi quadri luminosi mi portano ancora quelle parole come fosse lì a dirmele.
Quante volte l’ho visto fermarsi a metà di un discorso con improvvisa concitazione davanti a un albero giallo di foglie, a uno scorcio di case, a un variopinto banchetto del mercato, e poi correre a prendere tavolozza e cavalletto. In lui acutezza e fine psicologia coabitavano – è strano – con incredibili ingenuità. Difficilmente scopriva la cattiveria altrui, magari chiara. Se la vedeva, trovava modo di giustificarla, ammorbidendola nella visione triste e generosa che aveva dell’uomo e della sua fragile sorte. L’estrema ingenuità lo condizionava anche nell’approccio con la politica, della quale non capiva i giochi, pur necessari. Viveva, politicamente, una situazione di contrasto. Combattuto tra certe posizioni del liberalismo e certe altre della sinistra, non riusciva a trovare sbocco in una fusione razionale, né a riconoscersi in un partito. Sapeva – peraltro – che in politica non sarebbe stato utile a nessuno perché incapace.
L’ingenuità lo portava anche a gaffes colossali: scambiava gli amanti di certe signore per i fratelli, i mariti anzianotti per padri delle mogli e così via. Neanche lo si poteva rimproverare perché candidamente diceva: “come facevo io a saperlo?”.
Nella sua personalità c’era, a stupirmi, un’altra singolarità: da un lato era estremamente razionale, ordinato, logico (e lo provano, del resto, l’amore per la matematica, l’attitudine all’indagine scientifica ed alla ricerca filosofica), dall’altro pareva – invece – personificare estemporaneità, inventiva, originarietà, sull’onda di un estro artistico prepotente, che colorava di sé tutto il suo modo di essere.
Credo che l’interesse al problema algebrico, al quesito di fisica, al perché scientifico delle cose trovasse origine, così come lo sbocco all’arte – quasi una valvola di sicurezza, una scorciatoia – nel desiderio inconscio, frenetico, di salire alla verità. Questo il legame, il punto di incontro tra i due opposti versanti. Di qui la sua corsa, la sua ansia, anche la sua nevrastenia.
Una personalità ricca straordinariamente semplice straordinariamente complessa, dove l’estrema sensibilità moltiplicava le emozioni come una cassa di risonanza. Mia madre – credo – è stata l’unica persona che ha capito il papà fino in fondo ed ha saputo stargli vicino più di chiunque altro. Il loro rapporto, mai turbato da una parola, da uno screzio, volava alto, in una dimensione non comune di affetto e comunione.
Invidiava gli scultori perché – diceva – “per esprimersi godono di una dimensione in più”; i musicisti perché “la nota cattura la bellezza più di una pennellata”. Suonava vari strumenti ad orecchio. Si doleva di non conoscere la musica, ma ha dettato brani ancor oggi eseguiti. Del denaro gli importava poco; lo relegava – pur ammettendone l’utilità – fra le “macchinose convenzioni”. Non ne voleva in tasca che lo stretto necessario. Largheggiava in mance e non sapeva mai se in casa ci fosse denaro sufficiente o no . Personalmente , gli bastava un buon cane, un buon fucile e il necessario per dipingere. In caso di vincita al lotto (peraltro impossibile, perché mai ha partecipato ad alcun gioco, carte comprese), gli sarebbe piaciuto – diceva – un cavallo da sella, viaggiare per vedere i “colori del mondo” (inclusi i colori delle anime) ed assumere un cameriere che lo prendesse a calci ogni volta che accendeva una sigaretta e gli “domasse” le scarpe nuove.
Contestava alla Natura due errori: l’anteposizione dello stinco al polpaccio, invece del contrario (temeva le stincate) e l’averci dato la bocca coi denti, fonte di dolore, invece di un becco tipo pappagallo. Quanto al resto – al di là dello scherzo – guardava alla natura con incantata religiosità. Il miracolo della vita lo sorprendeva in continuazione, lo attirava e non smetteva di spiarlo – affascinato – nelle foglie, negli insetti, nel correre delle nubi, in qualunque cosa lo riecheggiasse. Di estrema, esagerata modestia, era pronto ad imparare da tutti: quello che aveva da insegnare gli pareva di scarso rilievo.
Era credente, ma non praticava molto la Chiesa. Penso – pur non avendone mai parlato con lui – che mal conciliasse l’immagine di Dio – somma dei valori, partenza ed arrivo del tendere universale – con riti e leggende da sempre posti dalle religioni, ciascuna a suo modo, fra l’uomo e la Divinità. Certo è che credeva nel Supremo Essere, nel sopravvivere dello spirito, nella continuazione degli affetti e nei valori cristiani di fondo, coincidenti – dopo tutto – con quelli suggeriti dalla sua impostazione morale.
Da anziano rimpiangeva – come tutti – la prestanza d’un tempo, pur conservando agilità e forza particolari anche se minori – è naturale – di quelle che spesso l’avevano portato alla vittoria di concorsi ippici, gare di nuoto, ginnastica agli attrezzi, tiro, scherma.
A caccia, delegava me – giovanotto – a battere i luoghi più impervi. Quand’ero a metà, me lo trovavo accanto. Una volta inciampò nel primo gradino di una ripidissima scala e lo vedemmo arrivare al piano di sotto a testa in giù; per aria cambiò posizione in un guizzo ed atterrò senza danno, coi piedi avanti, gratificando i presenti, atterriti, con l’inchino che fa il trapezista dopo il numero per carpire l’applauso.
Entro certi limiti gli piaceva conversare, purchè il discorso non cadesse nell’ovvio, nel bottone, nella diatriba, negli assolutismi della gente mai rosa dal dubbio, che lui disprezzava. Aveva una dialettica eccellente. Non tollerava presunzione e prepotenza mentale. “Modestia e semplicità –diceva – fanno sempre coppia con altezza di pensiero e signorilità”. Coi palloni gonfiati, gli arrivisti, i boriosi, era sarcastico, trovava modo di umiliarli e ridicolizzarli, in un incalzante gioco dialettico che non cadeva mai nell’offesa secca.
Odiava la disonestà anche nel campo dell’arte: quella di chi “senza sincerità e senza soffrire la ricerca” pittura secondo stereotipi e ricette, e quella di chi nasconde l’incapacità dietro “false ispirazioni” e cerebralismi vuoti.
Amava parlare coi contadini della sua terra, coi vecchi pescatori della darsena viareggina, con la gente umile. “C’è molto da imparare dai semplici digiuni di scuola – diceva – ; a volte sono sapienti perché hanno saputo cavare dalle loro esperienze saggezza, filosofia e morale più mature di quelle di molti pseudo-colti nei quali lo studio – lungi dal massaggiare la mente – s’è fermato alla nozione, mai è stato digerito, niente ha inciso nella loro anima. La cultura non è il sapere tante cose, ma l’estratto della conoscenza masticato e proiettato nello spirito in dimensione universale, come un ricco fertilizzante. Se mancano digestione e proiezione, se solo la mente è coinvolta e non lo spirito nella sua interezza, tutto si ferma a una serie di nozioni, paradossalmente utile solo a dimostrare che il soggetto è incapace di conoscenza vera”.
Mio padre riteneva gli “pseudo-colti” pericolosi perché “spesso dotati di titoli e posizioni che consentono loro di operare alla grande, con danno generale”. Temeva i cretini assai più dei farabutti.
Per la strada era sempre il primo a salutare, di chiunque si trattasse. Ancora oggi i vecchi del paese me lo ricordano spesso. La sua – devo dire – non era cortesia “imparata”, era quella istintiva del gentiluomo. Fu amico paterno di persone umilissime come di letterati, artisti, insigni uomini di scienza.
Molto sensibile alla bellezza femminile, con le donne era sempre garbato ed elegante. In paese mi giungeva eco di tante….. sue galanterie giovanili delle quali – naturalmente – si guardava bene dal parlare. Era anche convinto ammiratore del coraggio e della costanza della donna “capace più dell’uomo di silenzioso eroismo, di dedizione piena, di sacrificio, ed anche di cattiveria”.
Il rapporto tra lui e mia madre fu di fonda comunione, fatto di amore, stima, dedizione assoluta. Ebbero anche il privilegio di vivere tutta la vita nel costante fascino l’uno della personalità dell’altro.
Mio padre con me è stato dolce, mai uno scappellotto, una sgridata dura. Pur molto protettivo, mi concesse fin da piccolo, motocicletta (allora non occorreva la patente), fucili e sports rischiosi. Ha avuto il grande merito di sapermi dire al momento giusto le parole giuste, senza imposizioni, perché elaborassero dentro di me come un tarlo benefico. Da bimbo bevevo le sue favole, sfornate su misura a mitraglia, piene proprio dei personaggi e delle avventure graditi. Non ne sbagliava mezza!
Una volta che – ragazzetto ginnasiale – ero in crisi nera di insofferenza verso la scuola, eterna nemica – il papà gettò lì, come per caso un ricordo della sua fanciullezza. “Nel salotto – raccontò – le amiche di mia madre con tazzina e cappellino, cinguettavano – era giorni di “ricevimento” – . Al camino io giocavo con un martello tra due signore sedute ai miei lati, con le quali mia mamma lamentava che, già grandicello, io non sapevo né leggere, né scrivere. Le due signore sbottarono allora in una predica infinita. Un po’ ressi, poi, con due martellate secche, sistemai il ginocchio dell’una e quello dell’altra. Dopo, successe il finimondo! Fui catturato sull’albero più alto del giardino. Scontata la pena – assai dura – mi fu imposto un maestro a casa. Lui prima si disperava perché non recepivo niente, poi , esausto, dormiva, e così scappavo nella vigna, dove solo il domestico riusciva a scovarmi”. Sapeva bene, il papà, che io, selvatico quanto lui, al suo posto avrei fatto altrettanto. Così, quando mi lesse in faccia la piena approvazione per le martellate, il ritiro sull’albero e la fuga dal maestro, aggiunse distrattamente, senza parere: “un giorno – di colpo – capii che in fondo, a spingermi sugli alberi e ad evitare i maestri era la paura di imparare senza esserne capace. Sì la mia era paura, vivissima paura della scuola e dell’insuccesso. Insomma ero un debole e un vigliacco. Restai umiliato dalla scoperta, mi punse, allora, l’idea della riscossa; così ci fu – finalmente – la conversione”.
Non bastò certo quel racconto (del quale apprezzai più la prima della seconda parte) a convertire me, ma fu un rimprovero e una spinta più efficaci di tante prediche. So che la sua fu invece una conversione decisa: recuperò tempo, divorò libri, spaziò in campi diversissimi, finchè la pittura non lo rapì.
Ricordo un altro intervento calibrato ed efficace di mio padre. Ero al liceo e lo studio della filosofia mi aveva portato cento problemi, quelli che cavalcano ora le tristezze, ora gli entusiasmi giovanili, tingendo tutto quando di rosa e quando di nero, minando anche faticose certezze.
Il papà, d’indole tutt’altro che serena, era attento a questi stati d’animo, nel timore che la mia affinità a lui potesse favorire dei crolli anche nella mia serenità, e così – ancora una volta – senza parere buttò lì un lontano episodio, calzante, pieno di messaggi sottesi.
Narrò che, giovane ufficiale, prese il tifo bevendo in una pozza coi cavalli. Ricoverato all’Ospedale del Celio a Roma, fu dato per spacciato ed ebbe l’estrema unzione. “Ero sul letto in coma – raccontò – non potevo muovermi né spalancare gli occhi; intravedevo i miei genitori piangenti e notai il Colonnello stringere la mano a mio Padre, scuotendo la testa, come a dire “è finita”. Ero lucidissimo, in uno stato di estremo benessere, sicuro di non morire. Ma la beatitudine era tale – ecco la stranezza – che se anche la Morte mi avesse preso per mano mi sarei affidato a lei serenamente, certo che mi avrebbe condotto bene, al sicuro, senza strappi, senza neanche rubarmi gli affetti. Non era sogno il mio; per provare a me stesso la lucidità di quel momento, lanciai la mente all’indietro, fino a ricordare per la prima volta un episodio sepolto: io che urlavo mentre la mamma, per impedirmi di puppare (ne era passato il tempo) mi affidava ad un domestico, strappandomi dal seno. Fatto poi puntualmente confermato”.
Col racconto, il papà seppe dirmi che è giusto fidare in una logica buona, credere nella serenità, vedere nella morte il seguito della vita. Mi rimise sul naso gli occhiali rosa, con un leggero tocco.
In ogni gesto, in ogni parola di mio padre sentivo eleganza, stile, forza. Lo stroncò, settantatreenne un infarto. Aveva ancora molto da dire a noi, alla sua arte.
Non sono mai riuscito – però – ad immaginarlo vecchio, ferito nello spirito, fiaccato nel corpo, incapace di correre e correre senza pace dietro la bellezza e l’essenza delle cose.
Ho il rimpianto di non avergli dimostrato meglio affetto e ammirazione, per lo sciocco pudore che nega ai figli di aprirsi fino in fondo al padre, e quello di non aver imparato tante, troppe delle cose che poteva insegnarmi, ma il suo segno in me è più fondo d’un solco.
Vorrei tanto fosse davvero appagata, adesso, la sua ansia di compiutezza, quella che lo spingeva ai silenzi dell’Appennino, animava la sua tavolozza; gli tormentava la mente con cento quesiti; quella che ha dato smalto e colore alla sua grande anima.