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Negli Stati Uniti sono in tanti a dire che la recessione è finita l’estate scorsa. Ma da allora il paese ha perso un milione di posti di lavoro, che si aggiunge ai sette milioni soppressi prima. Il tasso di disoccupazione sembra quindi destinato a rimanere al 9% per un bel pezzo.
In questi giorni, però, si registra una lieve ripresa di cui il governo attuale potrà avvalersi a titolo politico nelle elezioni di medio termine il novembre prossimo. E Obama ne ha bisogno, visto che le concessioni all’opposizione nella riforma sanitaria non l’hanno reso affatto popolare a destra (non c’è presidente americano che voglia inimicarsi i conservatori) quanto piuttosto vulnerabile.
I repubblicani si stanno preparando per tornare all’attacco e già si vede da ora che faranno perno proprio sulla classe operaia americana che, senza sindacati veri e senza coscienza di parte, vota a destra da trent’anni.
La ripresa è nelle cifre, che registrano un certo aumento proprio a marzo nelle assunzioni e nella produttività. Ma mancano di dire che molte di queste assunzioni sono temporanee: è in corso un grande censimento nazionale e c’è bisogno di impiegati, che però verranno dimessi alla fine dell’estate.
E poi, nella stretta della recessione le aziende si sono abituate a produrre con meno personale e quindi a non assumere. I giovani escono dall’università e rischiano, se non la disoccupazione, molto probabilmente l’occupazione part-time e con stipendi insufficienti.
Chi ha un lavoro è costretto a ritmi intensissimi e a una produttività forsennata con lo spettro del licenziamento (e quindi della scadenza del mutuo immobiliare e degli altri debiti contratti); ed è già tanto così, quindi non conviene protestare.
Tutto ciò dopo il pacchetto stimoli alle grandi finanziarie che hanno distrutto l’economia prima e sono le prime a salvarsi poi; che era il colpo di coda di Bush, ma la responsabilità ricade (ad arte, beninteso) su Obama.
Una cosa è certa: gli economisti e gli esperti in statistica gongolano. Possono provare che l’economia è in ripresa e quindi riscuotere la parcella richiesta per elaborare le cifre. Perché, altrimenti, a che servirebbe l’economia?
Repubblica — 03 giugno 2004 pagina 38 sezione: ECONOMIA
MILANO – Disoccupati sì, ma d’ oro. Nell’ Olimpo dei Paperoni che tirano le fila dell’ economia mondiale sta emergendo negli ultimi mesi una nuova (invidiatissima) categoria sociale: i felicemente licenziati. Il loro identikit è articolato: ci sono top manager arrivati all’ età della pensione, giovani dirigenti rampanti giubilati senza troppe cerimonie.Persino qualche indagato per crac. Ma a unire tutti c’ è un fattore comune: le liquidazioni da favola che hanno reso meno amara la fine delle loro avventure professionali. L’ ultimo arrivato in questo esclusivo club è Giuseppe Morchio: l’ ex ad di Fiat – già uscito da Pirelli con un bonus da 120 milioni – ha lasciato il Lingotto con in tasca un pacchetto di stock option rivalutatosi in due giorni di 1,7 milioni di euro. Quanto guadagnava al Lingotto in 18 mesi. Ma non si tratta di un caso isolato. Il manager più pagato in Italia nel 2003 è stato Davide Croff, che si è messo in tasca 15,2 milioni di buonuscita dopo 14 anni in Bnl. Dietro di lui Gaetano Mele, che ha annacquato con un assegno da 9,6 milioni il dispiacere per l’ addio a Rcs MediaGroup. La holding del Corriere della Sera è del resto una sorta di palestra per potenziali disoccupati di lusso. Un buon ricordo (finanziario) dei suoi burrascosi mesi in cda lo conserva Franco Tatò, mentre promette bene anche la situazione dell’ amministratore delegato Maurizio Romiti che si è assicurato contro il possibile divorzio dalla società con un solido paracadute: un patto di non concorrenza da 5,6 milioni di euro. Cesare, padre di Maurizio, è stato il “pioniere” delle super-liquidazioni in casa Fiat: nel ‘ 98 ha lasciato il Lingotto con un pacchetto di bonus, tra contanti e azioni, da un centinaio di miliardi di vecchie lire. Venti milioni ha incassato invece Paolo Cantarella nel 2002, di cui 9,2, da prudente piemontese, spalmati in rate su un arco di vent’ anni. Un addio sottotraccia (come suo stile) è stato quello di Vincenzo Maranghi da Mediobanca. Cacciato dai soci, ha rifiutato una principesca buonuscita, accontentandosi di veder pagate le ferie non godute dall’ 85 (1,6 milioni).Più pratico Vincenzo De Bustis: i suoi quattro anni all’ Mps si sono tradotti in una buonuscita da 4 milioni, accompagnata da un “premio di operosità” da 1,19 milioni. Piccola nelle dimensioni ma singolare per tempistica la liquidazione da 500mila euro che Sergio Cragnotti ha ricevuto dalla Lazio a inizio 2003, quando già il suo impero stava cadendo a pezzi.
Il made in Italy dei disoccupati d’ oro tende a farsi onore anche all’ estero. Dick Grasso, italo-americano di seconda generazione, ha lasciato Wall Street dopo 38 anni con un bonus da 140 milioni, contestato dalla Sec. Ma i tribunali Usa sono pieni di cause contro le liquidazioni dei manager. Mitica è quella di Jack Welch, ex icona di General Electric. La sua buonuscita – rimasta a lungo segreta – è venuta a galla tra i documenti del processo di divorzio con la ex moglie: 9,5 milioni l’ anno vita natural durante, azioni e stock option per centinaia di milioni. Una vecchiaia tranquilla si è garantito anche Pierce Barnevik, che ha lasciato Abb con in tasca un assegno da 100 milioni. Una quarantina, bontà sua, ha deciso di restituirli dopo l’ annuncio dell’ apertura di un’ indagine da parte dei giudici di Stoccolma. Proprio le traversie giudiziarie sono l’ unica nube che offusca il futuro dei disoccupati d’ oro. Molti di loro, del resto, non hanno la coscienza pulita: Jean Marie Messier, l’ uomo che ha portato al tracollo Vivendi, pretendeva per il disturbo 20 milioni di liquidazione. Jack Grubman, guru delle tlc travolto dagli scandali di Wall Street, ne ha intascati 32. Bernie Ebbers, artefice del crack Worldocom, incassa un assegno annuo di 1,5 milioni dal gruppo che ha sfasciato. Tutti sono sotto indagine e la loro pensione rischia di essere più agitata del previsto. I soldi per le spese legali, però, non dovrebbero mancargli. – ETTORE LIVINI
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