Generazioni in perdita

Siete una generazione perduta” diceva Gertrude Stein a Ernest Hemingway, traducendo dal francese del capo garagista che si rivolgeva ai garzoni poco ubbidienti. A Parigi, negli anni venti, c’era ancora un certo senso dell’autorità delle generazioni passate anche tra gli americani in visita. Perciò la scrittrice riconosciuta e di esperienza poteva esprimersi così al giovane reporter americano a cui il Premio Nobel sarebbe arrivato solo molto più tardi. E ancora più tardi, dopo quarant’anni, sarebbe arrivato il ’68, che avrebbe rovesciato le parti. E infatti ora, quarant’anni dopo, è la generazione dei nonni del ’68 a sentirsi dire lo stesso commento dai nipotini dei licei americani, che leggono Il giovane Holden non sotto il banco, ma in classe a scuola, e lo deridono in continuazione.

Lo racconta oggi il New York Times (Jennifer Schuessler, “Get a Life, Holden Caulfield”) in un articolo di commento sulla letteratura a scuola. Il romanzo di J. D. Salinger (The Catcher in the Rye) esce nel 1951: la guerra è finita da poco e negli Stati Uniti comincia quel clima di tensione che presto porterà al terrore, alla guerra fredda e alle pratiche di difesa dal ‘pericolo rosso’ dell’Unione Sovietica. Negli anni a venire, i giovani sentiranno sempre più quel ‘peso istituzionale’ tipico dell’epoca e troveranno quindi rifugio in quei prodotti dell’industria culturale che esprimono ansia e isolamento giovanile; è il caso di romanzi come appunto Il giovane Holden di Salinger o Il laureato (The Graduate) di Charles Webb (che in seguito diventerà il film con Mike Nichols), di film come MASH di Robert Altman o di Fragole e sangue di Stuart Hagmann (tratto dal romanzo The Strawberry Statement di James Kunen) o delle note canzoni di Bob Dylan o di Paul Simon.

Dopo quarant’anni un bel po’ di rivoluzionari dell’epoca hanno finito con l’insegnare – resta il mestiere più coerente con certe premesse – e la scuola si è spostata a sinistra. Gli insegnanti, ben preparati a capire le ansie e gli entusiasmi giovanili, si trovano però stupiti che certe ansie e certi entusiasmi in sostanza nei giovani non si trovino più. Eppure la società industriale non è poi così cambiata da fornire chissà quale agio. Cos’è successo”?

È successo che l’industria s’è svegliata. Intanto ha capito che in una società in cui c’è sempre meno tempo da dedicare agli altri, specie ai figli (lavorando in due lo stipendio si dimezza: il datore di lavoro non è scemo) i giovani saranno sempre più alienati e abbandonati a loro stessi. Non avendo nessun referente con cui discutere dei loro problemi (che in sostanza si riducono a quello di crescere) il giovani non solo non li risolveranno mai, ma nemmeno sapranno mai di averli. E infatti arrivano a trenta o quarant’anni e si comportano ancora come ragazzini. Quindi tutto sta a imbottirli di oggetti nuovi, di cose nuove da comprare e da usare per due, tre anni al massimo; poi si buttano perché c’è la novità seguente. E non ci si può permettere di essere senza novità altrimenti si viene tagliati fuori: bisogna essere come gli altri e meglio degli altri. E ciò significa, in sostanza, avere più degli altri: in una società che riconosce solo il benessere materiale il capo riconosciuto è solo chi può dimostrarne di più. E allora è normale che si voti Berlusconi. Se poi capisci che è lui che ti ha vuotato le tasche, ancor meglio: ha dimostrato di essere più furbo di te e quindi si merita i soldi che hai. Capito, povero c… omunista idiota?

Perciò l’insegnante a scuola che ti racconta del ’68, con la giacca di velluto vecchia di dieci anni sopra i jeans, appartiene alla generazione che non solo ha perso, ma è destinata a perdere e non può fare altro; l’onnipotente (ieri Dio, oggi il denaro) ha voluto così. Il ‘loser’ inglese, protestante, non corrisponde all’italiano ‘perdente’, ma al ben più forte ‘sfigato’: destinato a perdere per ineluttabile volontà del fato che ontologicamente depriva dell’oggetto di soddisfazione sessuale (in un mondo maschile, chiaro). E tra quelli c’è anche il giovane Holden, a cui i ragazzi americani dicono: “Piantala di frignare e pigliati un Prozac”, così ti metti il solito sorriso di plastica e dai il tuo incentivo all’industria farmaceutica in crisi. Chi ti credi di essere, per protestare? Un c… omunista come il profe, che ha perso il treno del successo e si è trovato a stipendio fisso di m… iseria senza fare un c… atodo tutto il giorno? Altri tempi, altra musica: oggi se non sali sul treno del successo non solo non sei nessuno, ma non sopravvivi nemmeno. Quindi svegliati, datti da fare e sgomita. Non c’è posto per gli altri. E quando parla Papi, ascolta e impara: è lui che paga.

La mia generazione ha perso”, diceva Giorgio Gaber. Cosa resta da fare? Suggerimento personale: sorridere, prendersi tutte le ore di libertà concesse dal sistema (quello di Saviano, ovviamente) e osservare i giovani per strada: tutti vestiti uguali, con gli stessi occhiali scuri, con le stesse cuffiette stereo a tutto volume con la stessa musica tecno-disco (tucutùn tucutùn tucutùn tucutùn…). Tutti alienati. Avranno vinto loro, ma avevamo ragione noi. Non è sempre chi vince ad avere ragione; capirlo e farlo capire è già un passo enorme.

0 pensieri su “Generazioni in perdita

  1. Riporto a integrazione un passo da un altro blog:”Il problema non sono le condizioni materiali, la crisi economica, la scarsità della domanda. Sbagliano. Il nocciolo della questione è il desiderio. Il nostro essere puntine da disegno del capitale (il nostro esserlo stato, il nostro stare per) deriva dal fatto che non sappiamo volere altro, non ricordiamo nemmeno di poterlo fare. L’altra metà della trappola sono le aspettative: ci hanno convinto che ci siano dei futuri possibili, tenuti da parte per noi. Ci hanno inculcato questa idea fin dall’età più inconsapevole e intuitiva, ci hanno contaminato. Ci hanno rassicurato: c’è qualcosa per noi, di designato e gratificante – certo non sarà distribuito così, alla cazzo, ma in cambio di un ragionevole impegno noi saremo tutto; concertisti oppure padri di famiglia, speculatori di borsa che comprano e vendono azioni con il loro MacBook da una spiaggia della Guadalupe, assistenti sociali, scenografi. Noi li abbiamo ascoltati, ci siamo rassegnati. Niente è precluso, ci hanno detto, purché ricercato in maniera costante e ragionevole; e invece no. È falso. Peggio: è pericoloso. Questa minuziosa catena di montaggio di aspettative, a cui ci esponiamo come a una chemioterapia, sgretola la capacità di provare desideri, ci mangia all’osso. E la pulsione erotica verso i nostri sogni, la voglia di farsi una sproporzionata e infinita e goduriosa scopata con la vita, sono degli strumenti di resistenza, dei grimaldelli che però ci sono stati tolti di mano in maniera complessa e consapevole. Sono riusciti a trasformare tutte le nostre esperienze – dall’hobby alla perversione sessuale, dalla rabbia allo sport – in esperienze formative. Ci hanno convinto (e in un modo così totale e scacchistico che ci si può solo inchinare) che proprio quei frammenti di vita che per definizione, tempo libero, stanno dall’altra parte della barricata, proprio quegli atti in cui si è sempre investito il massimo carico emotivo, la propria risicata quota di pazzia e spontaneità, siano funzionali. Ce li hanno portati via. Così oggi cerchiamo di collocare nello schema del nostro curriculum quello che facciamo ancora prima di compierlo, e addirittura per decidere se compierlo o meno. Se non si incastra, se ha un posizionamento troppo ambiguo, lo evitiamo. A questo punto tutto è pronto per il colpo di grazia. Che, viste le premesse, non è nemmeno qualcosa di spettacolare, di ultraviolento: basta una spintarella. Quando si entra finalmente nel mondo reale (perché prima si viveva in una parentesi, e ce ne rendiamo conto in quel momento) le aspettative vengono deluse, tutte insieme. Non c’è niente.”
    Fonte:http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=6041

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